Come il mondo vero finì per diventare favola: 50 anni di Selling England by the Pound (Genesis, 1973)

Quando, nell’agosto del 1973, i Genesis entrarono in studio per registrare quello che sarebbe stato il loro quinto album, erano una band sulla cresta dell’onda: nel maggio dello stesso anno avevano terminato il loro primo tour americano, parte del percorso promozionale legato a Foxtrot, album pubblicato alla fine del 1972 (e del quale, se seguite queste pagine, avrete senz’altro letto in un post di qualche anno fa). Ma non furono tutte rose e fiori: il pubblico americano faticò non poco a “capire” la formula della band e quando, al ritorno dal tour nel maggio del 1973, la Charisma Records dette alla band un tempo di 2-3 mesi per uscire dallo studio con un degno successore del capolavoro pubblicato l’anno precedente, Mike Rutherford ebbe a dire che si trattò del classico “kiss of death”. Contrariamente a quanto temuto da Rutherford, e nonostante qualche immancabile, piccolo inghippo, Peter Gabriel ricorda il periodo di composizione per il nuovo album come un momento tutto sommato tranquillo e relativamente calmo: per la band si trattava del primo lasso di tempo senza impegni pressanti dopo un lungo periodo di fatiche in tour e in studio. I Genesis lavorarono ai brani presso due diverse location (prima in una villa in campagna a Chessington, Kingston upon Thames, e poi a Londra, presso la Una Billings School of Dance a Shepherd’s Bush); durante il periodo iniziale dei lavori, Phil Collins si prese anche del tempo per una collaborazione con Peter Banks, ex membro degli Yes, seminando un certo panico nel resto della band per timore che il batterista potesse decidere di gettare la spugna proprio durante la stesura del nuovo disco. Ad ogni modo, al momento di entrare negli Island Studios di Londra, i brani che sarebbero confluiti nel quinto album della combo inglese, intitolato Selling England by the Pound, erano pronti. Qui occorre fare un passo indietro, per chiarire il senso di un titolo così dissacrante: Selling England by the Pound contiene un distillato del miglior progressive-rock suonato dalla band di Peter Gabriel, Tony Banks, Mike Rutherford, Steve Hackett e Phil Collins, una successione di quattro suite dal tono oscillante tra la favola e l’epica, quattro grandi affreschi, per così dire, incastonati tra piccole gemme di passaggio, brani più brevi che occhieggiano ora al pop-rock, ora al mondo della musica classica, un percorso circolare dentro una neverending story che spinge a ricominciare con l’ascolto ancora e ancora e ancora. E pensare che tutto cominciò con un’accusa, piuttosto vibrante, rivolta dalla stampa musicale inglese alla band, ovvero quella di stare diventando “troppo americana” allo scopo di conquistare l’enorme mercato discografico d’oltreoceano (qualche informazione in più sul clima dell’epoca la si trova nel volume Genesis. A Biography di Dave Bowler e Bryan Dray), un’accusa già rivolta ad altre grandi band del rock progressivo britannico (Emerson, Lake & Palmer, Jehtro Tull e Pink Floyd, ad esempio). In pratica, Gabriel e soci si sentirono dare dei venduti: e allora uno dei temi sui quali riflettere per il nuovo lavoro sarebbe stato quello dell’identità della band, e dell’identità britannica stessa, della scomparsa della tradizione popolare inglese a vantaggio di una progressiva, inarrestabile colonizzazione culturale da parte della potenza egemone della seconda metà del ventesimo secolo (gli Stati Uniti d’America, ovviamente). Da qui il titolo, che è il più classico dei pun coi quali Gabriel infarciva i propri testi, e che gioca appunto con l’idea di vendere la propria identità (il selling England) a peso o in cambio di denaro, facendo leva sull’ambiguità del termine inglese pound che può essere usato sia per indicare la sterlina che la libbra (pun intended, si potrebbe chiosare usando un linguaggio contemporaneo). Il tema, ovviamente, non è di poco conto, e mi fa tornare in mente un’affermazione di Wim Wenders il quale, ovviamente, non c’entra assolutamente nulla con i Genesis, né tantomeno i due contesti (la Germania divisa del dopoguerra e l’Inghilterra degli anni ’70) sono in alcun modo confrontabili: il regista tedesco avrebbe sempre detto, nelle varie interviste, che il suo immaginario stesso era stato “colonizzato dall’immaginario statunitense”, spingendolo a pensare che non ci potesse essere altro modo che quello americano di girare un film o raccontare una storia, ad esempio. Le influenze culturali sono argomento complesso, il loro sviluppo e il loro peso su contesti culturalmente più deboli (o, più spesso, politicamente ed economicamente subalterni), un tema che esula dalle mie competenze e dallo scopo di queste righe: ma questa digressione serve a cercare di chiarire come la riflessione sull’identità popolare e culturale della band fosse un tema tutt’altro che superficiale, e d’altra parte è difficile comprendere appieno Selling England by the Pound senza tenere in debita considerazione questa prospettiva ermeneutica.
Fu lo stesso Peter Gabriel a sostenere di aver voluto, con queste canzoni, guardare alla
“Englishness in a different way”: come ci rammenta anche un discussione su reddit, il titolo viene da un manifesto del Partito Laburista e si riferisce, appunto, alla lenta erosione della cultura popolare inglese operata dalla progressiva americanizzazione, coi suoi portati di consumismo e materialismo. In pratica, nelle otto tracce dell’album va in scena lo scontro culturale tra il folklore inglese e il nuovo materialismo consumista proveniente da oltreoceano, confronto da non leggere, banalmente, come semplice “conservazione dell’esistente”, ma come scontro tra una visione del mondo più antica, capace di valorizzare la ricchezza culturale e la tradizione popolare, e una visione moderna, slegata da principi ideologici e volta unicamente all’idea di mondo come Grande Mercato da uniformare.

Una volta detto del contesto nel quale il quinto album della band vide la luce, c’è da dire che esso contiene, soprattutto, musica assolutamente immortale, e canzoni che sono diventate dei classici del repertorio dei Genesis e, per esteso, della musica rock. L’album, che raggiunse il terzo posto nelle classifiche inglesi e il settantesimo in quelle americane, si fregia inoltre di una splendida illustrazione di copertina realizzata dall’artista, scrittrice e insegnate d’arte inglese Betty Swanwick, intitolata The Dream. La Swanwick era nota soprattutto per il design di poster pubblicitari e informativi commissionati dal London Transport e realizzati tra gli anni ’30 e ’50 del secolo scorso: un certo numero di interessanti articoli sul design dei poster usati dall’azienda di trasporto pubblico londinese si possono leggere qui, per chi fosse curioso. Tornando al discorso principale, The Dream era un’opera pre-esistente all’album e venne riadattata per la copertina inserendo al suo interno un tosaerba (un chiaro riferimento al testo del brano I Know What I Like): il giardiniere Jacob, personaggio principale del testo di I Know What I Like, dorme e sogna disteso su una panchina accanto al suo tosaerba, e alle sue spalle compaiono tutta una serie di figure oniriche (ma di dichiarata ed evidente britannicità), immerse in un elegantissimo giardino all’italiana. Con questo album si interruppe quindi la collaborazione tra la band e l’artista Paul Whitehead, che aveva realizzato le copertine di Trespass, Nursery Crime e Foxtrot ed era direttamente coinvolto nella realizzazione degli artwork per i lavori delle principali band in forza alla Charisma (tra gli altri, anche i Van Der Graaf Generator). Un’ultima cosa interessante cui accennare è che, come accaduto per molti vecchi album, anche nel caso di Selling England by the Pound si è persa memoria della sua esatta data d’uscita (o comunque, non c’è accordo sul giorno preciso nel quale il disco fece la propria comparsa nei negozi di musica, evento non così infrequente per un mondo musicale pre-internet: un’interessante cronistoria della faccenda la trovate leggendo questo articolo): si può tuttavia immaginare che l’album venne pubblicato in una data compresa tra il 28 settembre e la prima metà di ottobre del 1973, avendo fatto la sua comparsa nelle classifiche di vendita più o meno intorno al 20 di quello stesso mese.

Mistero sulla data di uscita a parte, Selling England by the Pound contiene 54 minuti scarsi di musica che suonano affascinanti ancora oggi, a cinquant’anni di distanza dalla loro prima pubblicazione. Le sonorità romantiche e barocche della band permangono inalterate con tutta la loro fascinazione negli otto movimenti di questo lavoro: le consuete, complicatissime architetture armoniche partorite dall’immaginazione di Tony Banks e cesellate dalle finezze certosine di Steve Hackett si adagiano su impalcature ritmiche eleganti quanto implacabili, ora intense e trascinanti ora sghembe e spericolate (le numerose sezioni ricche di tempi dispari che fioccano in questo come nei precedenti e nei successivi lavori, frutto soprattutto degli ascolti eclettici del Phil Collins dell’epoca, batterista esagerato per gli standard degli anni ’70 e che sarebbe una spanna sopra la media ancora oggi, se i problemi di salute non lo avessero allontanato dal suo strumento prima e dal palco poi). Il motore ritmico della band, di assoluto prim’ordine, era messo in moto dal formidabile drumming dal sapore jazzy del già ampiamente citato Collins e dalla solidità e verve fantasiosa del buon Mike Rutherford (uno che è poco decantato ma che in realtà faceva tutto, suonava il basso e la chitarra dodici corde, componeva e chi più ne ha più ne metta). Su tutto, svetta Peter Gabriel che danza con una leggiadria fuori dal mondo sulle montagne russe soniche allestite dai suoi compagni d’avventura, armato del suo flauto, del suo calembour e del gusto, tutto inglese e tutto suo, del gioco di parole, del sarcasmo, dell’arditezza linguistica. Contrariamente a quello che accade in molto altro progressive-rock, una tendenza che per molti è divenuta, negli anni, sinonimo stesso del genere, non c’è mai auto-compiacimento in questa musica, né sterile esibizione fine a se stessa delle proprie capacità tecniche: nulla nel sound dei Genesis va mai oltre il necessario; non debordano mai le tastiere di Banks, sempre straordinariamente al servizio del pezzo anche nei molti passaggi solisti; non cedono mai allo sterile virtuosismo la stella luminosa di Steve Hackett e la sua fortissima espressività strumentale; e non ascolterete mai un autoreferenziale passaggio di troppo da parte di Phil Collins. Per la band non c’è tempo di specchiarsi: c’è solo tempo per suonare, suonare al 110% e oltre, tentando di cavare tutto il possibile dalla propria musica in termini di espressione e potenza sonora.

Hi, I’m in the English Channel. It is cold, exceedingly wet.
I am the voice of Britain before Daily Express. My name is Britannia. This is my song. It is called: Dancing With The Moonlit Knight.

L’opening, uno dei più fulminanti di tutti i tempi, è affidato alla bellissima Dancing with the Moonlit Knight, che introduce immediatamente il tema dell’identità britannica perduta: il brano offrì anche a Gabriel la possibilità di creare una delle sue più note dramatis personae, ovvero la Dea Britannia, incarnazione della stessa Inghilterra che il cantante interpretava dal vivo indossandone le vesti (con tanto di scudo recante l’effigie della Union Jack) e introducendo il brano con le frase sopra citata. Musicalmente parlando, Dancing with the Moonlit Knight è una devastante commistione di progressive-rock e folk inglese, impreziosita da un testo di rara acutezza, ricchissimo di giochi di parole e di riferimenti alla cultura e alla tradizione britannica: accanto a figure immaginifiche frutto di spericolati e sarcastici accostamenti di significato (lo Unifaun, la Queen of Maybe) e a riferimenti a Old Father Thames e ai Citizens of Hope and Glory, va in scena la definitiva mercificazione di una cultura svenduta per il semplice consumismo (la citazione ai fast food della catena inglese Wimpy, esempio perfetto di colonizzazione culturale, nei versi Chewing through your Wimpy dreams/ They eat without a sound/ Digesting England by the pound). L’ossessione per il benessere, tipica della cultura occidentale post-bellica, e una feroce critica del conformismo sociale che spinge ciascuno a rinunciare a se stesso per essere come tutti gli altri (al di là dei proclami “rassicuranti”, ma falsi, della società stessa: non vi ricorda niente? Think different?) sono al centro del mirino in versi come Follow on till the gold is cold/ Dancing out with the moonlit knight/ Knights of the Green Shield stamp and shout (con riferimento ai francobolli Green Shield), nel ritornello, o ancora The Captain leads his dance right on through the night/ Join the dance. Accanto alle maestose linee di arpeggi intessute da Banks e alle chitarre graffianti di Hackett, va in scena un lavoro strepitoso di Collins dietro le pelli: Dancing with the Moonlit Knight è tutta bellissima, senza nemmeno stare a parlare degli strepitosi interventi solisti, ma soprattutto contiene uno di quei passaggi strumentali che mi danno letteralmente i brividi ogni volta che lo riascolto, e che potete sentire qui attorno ai 4 minuti, un bridge nel quale la batteria è magicamente cadenzata, con delle nette pause, a riprendere la struttura delle strofe ma con un’enfasi di un altro mondo, da applausi a scena aperta. A quest’apertura colossale segue il primo singolo estratto dall’album, I Know What I Like (In Your Wardrobe), che è invece, inaspettatamente, una canzone pop (composta da Hackett, Banks e Gabriel) ma suonata col piglio tipico della band e che dà luogo a inusitate derive addirittura psichedeliche: il racconto di Gabriel nel testo è quello di un giardiniere, il già citato Jacob della copertina, felice e soddisfatto di fare la sua parte sotto il sole e per il resto interessato solo a fuggire l’universo capitalista che tenta costantemente di farlo sentire inadeguato (le voci dei vari personaggi che lo apostrofano nel corso del testo, come le figure che lo circondano nell’illustrazione di Swanwick, e cioè in sequenza le Ethel, i Mister Lewis, i Mr. Farmer o le Miss Mort). La via di fuga scelta da Jacob sembra essere quella del consumo di marijuana: nascosto nell’armadio, l’uomo rivendica il proprio diritto ad essere solo ciò che è (Me? I’m just a lawnmower/ You can tell me by the way I walk), e lo fa con l’accompagnamento di una linea di basso fantastica di Rutherford a scandire i ritornelli. Sulla successiva, epocale Firth of Fifth, composta da Tony Banks, si potrebbe scrivere un intero trattato di armonia (e qualcuno ci ha anche già provato, in piccolo): il titolo è un altro gioco di parole che coinvolge l’estuario (firth) di diversi fiumi scozzesi, tra i quali il Forth, e fa presumibilmente riferimento all’uso delle quinte (fifth, appunto) ascendenti (o quarte discendenti, dipende da che parte la si vuole guardare) come accordi di base della sezione introduttiva (Bb, Eb, Ab, Eb). Firth of Fifth condivide qualcosa dei modi della sonata, con un andamento classico ma pieno di invenzioni, opera dello smisurato talento compositivo di Banks; ma contiene anche forse il più celebre assolo di chitarra dell’intera produzione della band, suonato da Hackett riprendendo in larga parte il tema tratteggiato dal flauto di Gabriel nella prima parte del brano. I versi (vergati di proprio pugno da Banks che nel rievocarli racconta “Well, it’s not my best lyric, I have to say. Mike and I wrote the lyric together, although it was mainly me – I won’t put too much of the blame on Mike. I don’t know really. It was just following the idea of a river and then I got a bit caught up in the cosmos and I don’t quite know where I ended up, actually”) parlano di un river of constant change, un concetto che si sposa bene con la fluidità e mutevolezza del substrato strumentale del brano, che rappresenta a tutti gli effetti uno dei brani-manifesto dell’intero progressive-rock degli anni ’70. A chiudere il lato A arriva il breve episodio folk More Fool Me, composto da Rutherford e Collins e che vede quest’ultimo per la seconda volta alla voce (dopo aver cantato For Absent Friends, contenuta in Nursery Cryme), una ballad romantica e delicata che ha a che fare con il dolore della rottura.

“Cinema Show“ was an example of extended playing. Mike, Phil and I were in a room together and Mike came out with a riff in 7/8, which had a great feel, and by restricting his playing a little he allowed me to make the chord changes… so with Mike just hitting the bottom three or four strings of the guitar I managed to write endless bits on the rhythm. Just before we came to do the album, we put them in order and the final section of Cinema Show developed. (Tony Banks)

Il lato B dell’album si apre sull’epica The Battle of Epping Forest. Il tema della canzone fu suggerito a Gabriel da una notizia letta sui giornali relativamente a una guerra tra due gang contrapposte dell’East End di Londra, che avrebbe avuto come teatro la foresta di Epping, posta sul confine tra il territorio della Greater London e quello dell’Essex. Gabriel, incuriosito dalla vicenda, tentò di ottenere più informazioni a riguardo pubblicando alcuni annunci sui giornali, ma non riuscì nel proprio intento: si trovò quindi costretto a lavorare di fantasia, creando una sua propria storia a partire dai (pochi) eventi ai quali aveva trovato riscontro, e popolandola di una pletora di personaggi fantastici, una carrellata che include nomi come Liquid Len (un riferimento al reale personaggio della scena underground londinese Jonathan Smeeton, tecnico delle luci), Harold Demure o The Bethnal Green Butcher. Musicalmente The Battle of Epping Forest, che inizia coi toni marziali della marcia, è scandita da suoni sintetici che rimandano agli squilli di tromba a segnalare l’avvio delle ostilità sul campo di battaglia, con un sostegno ritmico pulito e precisissimo fornito dal duo Rutherford/Collins. Al caos della battaglia segue, inevitabilmente, il calare di un benedetto silenzio, incarnato dallo strumentale intitolato After the Ordeal (altro titolo parlante, ovviamente: dopo l’ordalia, riferita alla dura battaglia). Composta da Hackett con la collaborazione di Rutherford, After the Ordeal nacque come episodio puramente elettrico (come si può ascoltare nella coda del brano, che racchiude l’idea originaria stesa dal chitarrista) al quale venne aggiunta un’introduzione di chitarre con accenti classicheggianti (Hackett disse che si trattava della prima volta nella quale avesse usato corde di nylon sulla chitarra in un disco dei Genesis): l’effetto è di romantica e crepuscolare distensione, il tramonto di un giorno di sangue che si spenge in una notte fresca e finalmente calma. Ma col calar della notte giunge il momento del quarto episodio “lungo” dell’album, che poi è un altro capolavoro e tra i massimi vertici dell’epopea compositiva della band: The Cinema Show. Lontanamente ispirato al poemetto The Waste Land di Thomas Stearns Eliot (in italiano, La Terra Desolata: cliccando qui invece potete leggere il testo originale), del quale cita apertamente la figura di Tiresia, il brano rappresentò uno dei pilastri dello scontro tra Banks e Gabriel, che lo riteneva troppo lungo e con una sezione strumentale eccessivamente dilatata. L’idea iniziale era quella di farne un brano attorno ai 20 minuti fondendola con Dancing with the Moonlit Knight, ma il gruppo abbandonò presto il proposito temendo di andare troppo vicino a replicare gli esiti del capolavoro Supper’s Ready, inclusa nel precedente Foxtrot. Per evitare di ripetersi, i due brani vennero tenuti separati; tuttavia Gabriel avrebbe preferito accorciare (o meglio omettere completamente) la coda strumentale di The Cinema Show, arrivando a forti frizioni con Banks, il principale compositore del brano, che non era disposto a rinunciarvi. Alla fine, come compromesso, il brano fu tenuto tal quale ma fu inserita After the Ordeal (mal vista da quasi tutti nel gruppo: diciamo che Hackett non era il membro più benvoluto all’interno della band, e le sue composizioni quasi mai sufficientemente apprezzate, basti pensare al caso di Horizons in Foxtrot, con l’aggravante in quel caso che quella composizione coinvolgeva appunto il solo chitarrista) a separarlo da The Battle, soprattutto per ragioni di equilibrio nelle durate dei due lati del vinile. Per fortuna le cose sono andate come sono andate, perché The Cinema Show, al di là della prima parte che è un pop sognante scandito da intrecci di chitarre a dodici corde e arricchito da brevi assoli di flauto e oboe, e che racconta la storia di una coppia, Giulietta e Romeo (riferimento a Shakespeare che è, di nuovo, aperto riferimento al poemetto di Eliot), sullo sfondo dei richiami mitologici alla figura di Tiresia (Once a man, like the sea I raged/ Once a woman, like the earth I gave/ But there is in fact more earth than sea), è proprio la coda strumentale che rende il brano un viaggio meraviglioso e preziosissimo. La parte finale di The Cinema Show si apre su un tema esposto da Hackett in un quattro quarti enfatico ma tutto sommato piano, che si tramuta in un tempo dispari (7/8) trascinante, scandito da un Collins in stato di grazia: la ritmica sincopata diventa il tappeto ideale per un fraseggio solista strepitoso di Banks al sintetizzatore ARP Pro Soloist. Sono talmente tanti i momenti indimenticabili di questa lunga sezione strumentale che bisognerebbe commentarli a uno a uno, se non fosse che la vita è troppo breve, che “scrivere di musica è come ballare di architettura” e che, soprattutto, basta schiacciare play e godersela. A chiudere ciclicamente il percorso di Selling England by the Pound, connettendo idealmente il finale di The Cinema Show con il nuovo inizio di Dancing with the Moonlit Knight, arriva la breve Aisle of Plenty. Il brano, molto vicino a Dancing with the Moonlit Knight come tematiche, prende il proprio titolo di nuovo da un gioco di parole, l’assonanza con isles of plenty, riferita all’abbondanza di merci ammassate nelle corsie dei supermercati (cioè le grocery aisles trattate alla stregua di vere e proprie isole, isles, tra le quali navighiamo coi nostri carrelli stipati di roba): musicalmente, Aisle of Plenty riprende l’armonia di Dancing with the Moonlit Knight ma, nel suo testo, elenca esplicitamente una serie di catene di discount inglesi (Safeway nel verso “Easy, love, there’s the Safe Way home”; Fine Fare e TESCO in thankful for her Fine Fare discount, Tess Co-operates; e considerate che la catena Fine Fare, dopo una serie di cambi di proprietà, venne acquistata da Co-Op: sì, proprio quella di Tess Co-operates) e riporta addirittura una lista della spesa, finendo col cantare, nell’ultimissimo verso, le uova strapazzate (da sempre quello delle uova è un topos della scrittura dei Genesis: su As Sure As Eggs Is Eggs si chiudeva Supper’s Ready , e su It, contenente il verso It is eggs, si sarebbe concluso il sesto e ultimo album dei Genesis dell’era Gabriel, il successivo The Lamb Lies Down on Broadway).

Come titolo di questa analisi ho scelto una celebre frase che Nietzsche scrisse nel Crepuscolo degli Idoli, il titolo di un breve racconto in sei punti recante il sottotitolo di “storia di un errore”. C’entra forse poco, se non che anche questo Selling England by the Pound è una narrazione favolosa che parla di un’affabulazione, di una storia falsa ammantata di verità e fascino. Se nel caso di Nietzsche l’affabulazione era riferita al tentativo di promuovere l’idea di una verità una, indiscutibile, sottesa al mondo delle apparenze e iperuranicamente lontana (la Verità che è dapprima Platone, poi la religione rivelata, per divenire sublimata, pallida, nordica, königsbergica, ovvero kantiana, e poi positivista, e solo alla fine venir additata per ciò che è, menzogna, dagli spiriti liberi) che sarebbe stato, nella critica nietzscheana, l’impegno intellettuale principale dell’intera storia dell’Uomo, nel caso dei Genesis, più prosaicamente, la favola è quella del consumismo, del materialismo, della rinuncia alla propria identità promossa in nome del benessere, cardine sacro dell’orizzonte ideologico capitalista. È la storia che ci racconta Britannia col suo scudo, una storia scandita dai nomi delle catene di supermercati, gli ultimi orizzonti del modello consumista che foggia a sua immagine e somiglianza l’immaginario dell’Occidente (mi torna in mente il finale geniale del White Noise girato da Noah Baumbach a partire dal celebre capolavoro di Don DeLillo, del quale scrivevo su queste pagine tempo della sua uscita), gli ultimi spazi nei quali ai Citizens of Hope and Glory (ma in fondo la vicenda supera i limiti della britannicità per parlare a tutti noi) è consentito essere ciò che soltanto potranno essere da qui in avanti, ovvero consumatori. La favola raccontata dai Genesis è però, compiutamente, un racconto che davvero aderisce alla dimensione del fantastico, molto di più di quanto non accadesse ovviamente per l’aforisma nietzscheano: affilando l’arma del sarcasmo, il gusto del gioco di parole e dell’assonanza, i Genesis ci raccontano una storia sulla progressiva trasformazione della cultura tradizionale inglese nel terreno di conquista delle nuove ideologie del Mercato coi toni (e i suoni, e l’immaginario) di una narrazione epica. La musica di Banks e soci è una musica volutamente, intrinsecamente barocca, articolata, complessa ma sempre venata di un autentico, vibrante romanticismo: forse classicheggiante, a tratti, eppure ricca di colpi di coda (si pensi alle percussioni africane che si ascoltano in un brano come I Know What I Like, suonate da Gabriel su una talking drum che John Burns, lo storico sound engineer e producer che ha lavorato all’album, aveva comprato in Nigeria: forse addirittura il primo vagito di quell’attenzione per i suoni del mondo e la world music che avrebbe tanto caratterizzato la carriera del Gabriel solista?) e riferimenti alla contemporaneità più sperimentale (le dichiarate influenze subite da Collins, anche batterista della band fusion Brand-X, da parte di collettivi quali la Mahavishnu Orchestra). Le otto tracce che costituiscono la verità disvelata in forma di favola lungo questo Selling England by the Pound oscillano pertanto tra madrigali rock (Dancing with the Moonlit Knight), progressive con accenti da sonata classica (Firth of Fifth), intrecci sognanti e favolistici di chitarre eteree (The Cinema Show) e progressioni marziali confezionate con tonalità da battaglia epica (The Battle of Epping Forest), intervallate da altrettanti snodi di raccordo, piccole gemme incastonate tra i giganti, gioiellini di un folk-rock raffinato (I Know What I Like, More Fool Me), detour classicheggianti (After the Ordeal) o deliranti racconti psichedelici (Aisle of Plenty): in generale un sound non certo heavy, che è un po’ anche la ragione per la quale, a partire da The Lamb, Gabriel avrebbe tentato di spingere il sound della band a virare verso regioni meno “eteree” e “fantastiche”, meno femminili e più virili, come l’artista stesso avrebbe spiegato (con scelta di termini forse discutibile), e più vicine alla contemporaneità claustrofobica della new wave (non tanto di là da venire) che non ai ricami svolazzanti del prog classico. Come sappiamo, la storia si sarebbe incaricata di dimostrare come le cose dovessero andare diversamente: Gabriel lasciò la band dopo The Lamb e i Genesis, almeno finché Hackett rimase della partita, continuarono a gravitare attorno alle sonorità che li avevano resi ciò che erano, con risultati anche notevolissimi (A Trick of the Tail, Wind and Wuthering), prima di tramutarsi in tutt’altro. Eppure ancora oggi, nel suono affascinante, adamantino e suggestivo di Selling England by the Pound si annidano, come abbiamo visto, temi che sono ancora caldi nella nostra contemporaneità, e quindi non di banale escapismo estetico si sarebbe dovuto parlare, ma della capacità immaginifica di rivestire il reale dei toni fiabeschi della metafora, dando alla storia la forma di un apologo. Tanti ottimi dischi sono stati scritti e suonati nella storia della musica pop(olare), pochi ancora dopo cinquanta anni mantengono intatto il loro mistero, il loro fascino, il loro senso più compiuto: e se non siete tra quelli che si interessano a ciò che accompagna la musica, dentro Selling England by the Pound troverete comunque composizioni senza tempo, di una bellezza indiscutibile, di quelle che ti fanno chiedere, fuor di polemica, “come siamo finiti alla musica che ascoltiamo oggi se un tempo ascoltavamo questo?”. Il mondo vero diviene favola, e lasciarsi raccontare questa favola è ancora oggi un’esperienza meravigliosa.

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