August and Everything after (Counting Crows, 1993-2023) + September Round-Up

Ho iniziato a suonare uno strumento in età piuttosto avanzata: era il 2003, avrei di lì a poco compiuto 19 anni e affrontato l’esame di maturità, e nel febbraio di quell’anno comprai il mio primo basso elettrico, un quattro corde basso costo con configurazione PJ, anche piuttosto ben tornito per il suo prezzo. Le mie prime lezioni di basso, giunte dopo un paio di mesi passati a ciondolare sullo strumento senza ovviamente venirne a capo, si svolsero nel mese di aprile di quell’anno. Subito dopo avviai un primo gruppetto, insieme a un’amica (MariaClara, che chissà, magari mi legge e allora colgo l’occasione per salutarla): nel repertorio c’erano canzoni pop-rock, per lo più inglesi e americane, cui si aggiunse in seguito anche qualcosa di italiano. Fu in quel periodo, poco prima del nostro primissimo live (12 luglio 2003, meno di una settimana dopo aver sostenuto l’esame di maturità: la band non ebbe fortuna, ma come fai a dimenticarti la prima volta su un palco?), che incontrai August and Everything After, l’album d’esordio dei Counting Crows. Accadde che, a un certo punto, il nostro batterista dell’epoca (che poi sarebbe diventato compagno di merende in MelaVerde Records e che forse oggi qualcuno tra voi conosce meglio col nome d’arte di Phomea, se non altro perché ne ho scritto qua e là su questo blog) propose di suonare qualche pezzo di questa band, consegnandoci il classico CD masterizzato: al nostro repertorio si aggiunsero ben presto cinque degli undici brani inclusi nella scaletta dell’album, anche se saremmo stati persino pronti a suonarli tutti. All’epoca in cui lo ascoltai la prima volta, August and Everything After non aveva ancora girato la boa dei dieci anni: l’album, registrato tra febbraio e giugno del 1993 a Los Angeles, venne pubblicato il 14 settembre di quell’anno per Geffen, con la produzione di T Bone Burnett. A questo punto vi sarà probabilmente chiaro perché ne stiamo parlando: il disco d’esordio della band californiana capitanata dal capelluto frontman Adam Duritz ha compiuto giusto 30 anni nel mese appena concluso, e quando ho realizzato la cosa ho capito che avrei dovuto scriverne, non foss’altro che per rispetto verso quel primissimo periodo del mio rapporto con la musica e col mio strumento, del quale anche questo pugno di canzoni fu protagonista. In fondo, è stato suonando in sala prove Mr. Jones, forse il più celebre tra i brani dell’album, che ho imparato per la prima volta sul campo come si debba incastrare una linea di basso tra cassa e rullante. I buoni dischi, ne sono convinto, sono un po’ come buoni e veri amici: in un certo senso, citando un po’ liberamente una frase che ho letto molti anni fa nelle prime pagine di Caos Calmo di Sandro Veronesi e che ancora ricordo bene (sebbene il libro, lo confesso, non sia mai riuscito a finirlo), certi album potresti quasi definirli tuoi fratelli perché, come scriveva l’autore, “un fratello è il testimone di un’inviolabilità che da un certo momento in poi nessun altro è più disposto a riconoscerti”. Questo per dire i ricordi che mi provoca questo album. Così, in occasione di questo trentennale, l’ho rimesso in rotazione tra i miei ascolti, e l’ho ascoltato più e più volte di fila riscoprendomi a conoscerne a menadito ogni passaggio strumentale (e ogni linea di basso, chiaramente!) e a riprovare spesso le stesse sensazioni sperimentate la prima volta: è un disco di pop-rock onesto e diretto, intriso di una certa aura folk, compiutamente americano nel suo songwriting soprattutto perché pieno di storie che non necessariamente devono essere storie di vincenti, anzi; è un disco che, alle mie orecchie, non è invecchiato di un solo giorno.

Facendo un passo indietro, August and Everything After era dunque il disco di debutto della band, seguito a un lucroso contratto sottoscritto con la Geffen dopo che, pare, nel 1992 si era scatenata una vera e propria asta per far firmare un contratto alla band, della quale resta il ricordo del nomignolo guadagnato dai nostri in quei giorni tra gli addetti ai lavori, ovvero Accounting Crows (c’era grande fiducia nel successo commerciale che Duritz e soci avrebbero incontrato). L’album fu realizzato dalla primissima incarnazione della combo californiana, che avrebbe cominciato a cambiare componenti non molto tempo dopo, e che comprendeva, oltre al già citato Duritz (alla voce e talvolta al piano e all’armonica, e ovviamente autore dei bellissimi testi), il primo batterista Steve Bowman, David Bryson alla chitarra, Matt Malley al basso (e chitarra) e Charlie Gillingham (piano, Hammond B3, fisarmonica e Chamberlin, una specie di analogo elettro-meccanico del Mellotron). Personalmente (ma credo che la cosa non riguardi solo me), mi sono fatto l’idea che questo disco abbia rappresentato l’apice della carriera dei Counting Crows, e che la band non sia quasi mai riuscita a riavvicinarsi all’evocativa leggerezza di queste undici tracce: forse solo a tratti, in episodi successivi quali A Long December (da Recovering the Satellites, del 1996), Colorblind (da This Desert Life, del 1999) oppure la splendida, più recente Possibility Days (estratta dall’ultimo album sin qui pubblicato, Somewhere Under Wonderland, del 2014). Molto del fascino che August and Everything After esercita su di me, però, ha a che fare direttamente col suo titolo: agosto e tutto ciò che lo segue. Ho sempre avuto la sensazione che Agosto fosse “il mese più freddo dell’anno”, come cantavano, proprio in quel 2003 nel quale scoprì questo album, i Perturbazione (brano meraviglioso, accompagnato da un delicatissimo video animato); uno dei miei ricordi più assurdamente vividi dei lunghi viaggi in treno ai tempi dell’Università era un tipo che, seduto un paio di file più in là durante una fredda serata di novembre, leggeva un romanzo intitolato Luce d’Agosto (che all’epoca, lo confesso, non conoscevo); e forse per questo stesso motivo, quando alla fine ebbi una band tutta mia, la prima demo che “incidemmo” (uso le virgolette per non far trasalire nessuno al pensiero) decisi di intitolarla proprio, semplicemente, Agosto.

Ecco, pochi album hanno un’atmosfera che tanto da vicino ricorda quella di un certo periodo dell’anno: in August and Everything After c’è un po’ di quella freddezza che ad agosto ho sempre riconosciuto, quella sensazione di conclusione, di qualcosa che inizia a spengersi, a contrarsi e ripiegarsi su stesso; non la fine dell’estate astronomica, quella arriva a settembre, ma di certo la fine dell’estate dell’anima. A inizio settembre ricomincia la routine di ogni giorno, i tramonti sembrano meno infiniti, l’orizzonte un pelo più indistinto. La cosa interessante è che, come ho scoperto mentre mi documentavo per questa breve recensione, Duritz è nato proprio il primo agosto, e quindi forse la locuzione August and Everything After è un titolo che allude all’elemento autobiografico, alla vita stessa dell’autore, che entra in mille modi dentro queste undici tracce. Faccio un appunto di servizio prima di entrare nel merito del disco ricordando che il successo di August and Everything After è stato tale che, nel 2011, è stato rilasciato l’album live August and Everything After: Live at Town Hall, contenente la registrazione di un’esibizione della band tenuta a New York nel 2007, e accompagnato anche da un DVD/BD: nel corso di detto concerto, l’album di esordio della band venne eseguito per intero (con Raining in Baltimore inserita dentro Round Here, come da consuetudine dei live di Duritz & Co.).

L’album comincia, dopo dodici secondi di silenzio, con il formidabile arpeggio introduttivo di Round Here, ballad incernierata su una sezione ritmica che suona spaziale ancora oggi per quanto basata su un’idea assolutamente semplicissima: bastano il primo colpo di rullante e la prima progressione del basso a rovesciare completamente il pezzo, che oscilla tra la canzone che parla di chi decide di scrivere canzoni e il racconto della storia d’amore tra il narratore (alter ego dello stesso Duritz) e Maria, una ragazza apparentemente affetta da quegli stessi problemi mentali dei quali Duritz stesso, anni dopo, avrebbe raccontato di aver sofferto (e prima di una lunga serie di figure femminili che si susseguono nei brani). Round Here è un pezzo letteralmente perfetto, nella sua costruzione e soprattutto nel suo sviluppo: le prime figure del racconto emergono come ombre dalla nebbia (Step out the front door like a ghost into a fog/ Where no one notices the contrast of white on white), in cerca di un senso alle proprie vite, e tra queste è Maria la principale protagonista, che entra portando con sé l’elemento ritmico. Ascoltate con molta attenzione come i versi Maria came from Nashville with a suitcase in her hand/ She said she’d like to meet a boy who looks like Elvis/ And she walks along the edge of where the ocean meets the land/ Just like she’s walking on a wire in the circus scivolino magicamente sulla scansione ritmica della batteria e del basso, quasi facessero surf sulle onde: la combinazione perfetta di versi e musica, come se ne sentono pochissime in giro. La successiva Omaha unisce accenti vagamente celtici a un testo che, nella tradizione del racconto in musica tipica del miglior cantautorato americano, decide di affrontare di petto il tema religioso: alle promesse della cristianità si risponde con il verso It’s the heart that matters more e con un ritorno alla terra che si incarna, non a caso, nella fisicità di una delle molte città del cuore profondo degli Stati Uniti, una Omaha non meglio definita (probabilmente parliamo della Omaha in Nebraska, ma negli Stati Uniti ce ne sono almeno altre otto e il brano gioca forte con questa ambiguità, incarnando in Omaha più un’idea di americanità profonda che una città vera e propria). A Omaha segue una canzone che tutti conoscono, quella Mr. Jones che fu la prima grande hit single della band. Come racconta lo stesso Duritz, lo spunto per il brano è, manco a dirlo, fondamentalmente autobiografico:

“It’s really a song about my friend Marty and I. We went out one night to watch his dad play, his dad was a Flamenco guitar player who lived in Spain, and he was in San Francisco in the Mission playing with his old Flamenco troupe. And after the gig we all went to this bar called the New Amsterdam in San Francisco on Columbus and we got completely drunk. And Marty and I sat at the bar staring at these two girls, wishing there was some way we could go talk to them, but we were too shy. We kept joking with each other that if we were big rock stars instead of such loser, low-budget musicians, this would be easy. I went home that night and I wrote a song about it”

Cosa si può dire di Mr. Jones? Il meccanismo ritmico avviato dallo strumming delle chitarre e completato dagli incastri micidiali di basso e batteria lo conoscono tutti quelli che abbiano ascoltato il pezzo: da musicista, a vent’anni di distanza dalla prima volta in cui ho ascoltato questo brano e soprattutto dalle prime volte in cui ho provato a suonarlo, sono ancora ammirato dalla fluidità con la quale i pieni e i vuoti si susseguono nella linea di basso di Malley, e dal suo incastro perfetto con la linea ritmica di Bowman; e soprattutto dalla semplicità di questa linea, perché laddove ci starebbero un milione di note Malley ne usa 5 o 6 al massimo, operando un piccolo capolavoro in termini di scelta delle note, durata, intenzione. Mr. Jones mi appare ancora oggi alla stregua di un breve ed efficace trattato su come si possa rendere Just a little more funky quello che, in mano a qualcun altro, sarebbe stato un semplice pezzo pop. E poi è anche una piccola e poetica divagazione sull’importanza e sull’arte del sogno come motore per la vita: Paint myself in blue, red, black and gray/ All of the beautiful colors are very, very meaningful/ Yeah, well, you know gray is my favorite color/ I felt so symbolic yesterday/ If I knew Picasso/ I would buy myself a gray guitar and play. Da questo stesso spazio di poesia emerge la delicata ballad Perfect Blue Buildings: costruita attorno alla splendida immagine di questi perfect blue buildings/ Beside the green apple sea, la canzone racconta della lotta contro la dipendenza (dall’alcool? Dalla droga? Forse la lotta contro la crisi e il crollo mentale?), della ricerca di un sollievo (I wanna get me a little oblivion, baby/ I’m trying to keep myself away from myself and me), del bisogno di aiuto da parte delle persone che ti amano. Un brano tanto personale quanto, si racconta, difficile da incidere per la band, dilaniata al riguardo da tensioni interne culminate in un crollo mentale sofferto da Duritz nel corso delle sessions di registrazione, prima che il pezzo prendesse la direzione giusta. Alla dolce malinconia di Perfect Blue Buildings fa seguito la Meraviglia con la m maiuscola, ovvero la deliziosa scansione ritmica di Anna Begins: che è una canzone d’amore, e una canzone sulla negazione, su due persone che pensano di amarsi ma si convincono che non sia vero, anche se non nello stesso momento (e con tutto ciò che ne consegue). Mentre riascoltavo il brano mi sono scoperto a immaginare una somiglianza tra Anna Begins e il narrato di un brano molto successive, Possibility Days: “These seconds when I’m shaking/ Leave me shuddering for days”, dice Anna, e oltre vent’anni dopo in Possibility Days ascoltiamo che ‘Cause you just don’t sleep in the daylight so I don’t sit up nights/ I lie on my back on the top of a hill/ And your body is breaking the sky/ Cause you’re shaking. Magari è solo una suggestione, però penso sia un bello spunto. Anna Begins è comunque molto di più di questo: è un verso di estreme dolcezza e bellezza, pieno di un caloroso stupore (Every time she sneezes, I believe it’s love/ And oh, Lord, I’m not ready for this sort of thing); è (ancora una volta) un geniale meccanismo ritmico costruito sull’uso sapiente del pieno e del vuoto, sulle pause e le attese; e infine è una love-song attraversata da chitarre bluesy, graffianti e dense. Un altro di quei brani che, anche da soli, basterebbero per fare un gran disco. Ad Anna Begins segue la romantica ballad Time and Time Again, un concentrato di poesia per fallimenti e cuori spezzati: tutte le delusioni che la vita ci mette davanti, tagliate a metà da uno strepitoso solo di chitarra. Anche le canzoni apparentemente più leggere e solari, come Rain King, nascondono un fondo di strisciante malinconia: Rain King è un up tempo ispirato al romanzo Henderson the Rain King di Saul Bellow (Il re della pioggia, nell’edizione originale italiana), che riflette ancora una volta sui dubbi e le paure legate alla creatività (in questo caso alla scrittura) e alla sua espressione. Sullivan Street è ancora una ballad incentrata su un amore finito: il testo racconta dei ritorni a casa di Duritz durante la notte, che non poteva trascorrere insieme alla compagna dell’epoca perché la madre di questa, molto religiosa, non vedeva di buon occhio questo genere di intimità. Anche in Sullivan Street la storia di un rapporto impossibile si ammanta dei toni della nostalgia e del dolore della solitudine. Lo stesso amore impossibile riecheggia anche nella seguente, splendida Ghost Train, notturna e insieme densa di colori, attraversata da questioni quasi filosofiche (Love is a ghost train, howling on the radio/ “Remember everything” she said, “when only memory remains”) e umano bisogno di calore (quell’accorato “How do you do?” che scandisce i ritornelli). A Ghost Train fa seguito un altro momento da pelle d’oca, la bellissima Raining in Baltimore: piano, voce e fisarmonica per una poesia sulle grandi distanze, sulla solitudine, sul sentirsi fuori posto; sul bisogno di vicinanza, quindi (I need a phone call, I need a raincoat/ I need a big love, I need a phone call), e anche sull’amore, quello non corrisposto, quello frainteso, quello che, di nuovo, non è andato come si sarebbe voluto (There’s things I remember and things I forget/ I miss you, I guess that I should/ Three thousand five hundred miles away/ But what would you change if you could?, che però sono anche versi dedicati dall’autore a Baltimora, sua città natale: una sorta di Heimweh mista a un dolore d’amore). Proprio in questi versi trovo sempre, di nuovo, una connessione a Possibility Days, distante 21 anni da questa canzone: un modo per dire che a volte le cose, magicamente, si tengono. E se in Raining in Baltimore Duritz canta And I get no answers, and I don’t get no change, è proprio l’invito a cambiare l’inerzia della propria vita quello che scandisce la conclusione del percorso di August and Everything After, affidata alla canzone che risponde al titolo geniale di A Murder of One (riferimento al collective noun usato in inglese per i corvi, ovvero A murder of crows; e ancora, nella sua declinazione nel titolo, alla solitudine come di uno stormo con un solo componente). A Murder of One è un up tempo decisamente rock, apparentemente un invito a una donna a lasciar esaurire una storia d’amore già fallimentare (All your love is just a dream, dream, dream […] We were perfect when we started/ I’ve been wondering where we’ve gone), ma più in generale un invito al cambiamento che passa attraverso l’idea che in fondo la vita sia assurda come contare i corvi (non ricordo chi abbia detto questa frase, e non sono riuscito a ripescarla nei meandri della rete): A Murder of One contiene anche il riferimento diretto al nome della band, associato a una popolare filastrocca per bambini (nel testo di Duritz, One for sorrow, two for joy/ Three for girls, and four for boys/ Five for silver, six for gold/ Seven for a secret never to be told) originariamente riferita al contare le gazze (magpies); ma in fondo le gazze altro non so che corvidi, quindi perché no? Se la conclusione su una vita priva di senso vi sembra troppo esistenzialista, beh, sappiate che invece questo album una nota di rimuginazione esistenziale la contiene eccome.

August and Everything After è un album di undici canzoni che non si può esitare a definire perfette, insieme esplose e raccolte, debordante quel calore che solo la cara, vecchia musica suonata col cuore può sprigionare: l’album perfetto di una band in stato di grazia, con la vocalità dolorosa e potente di Adam Duritz a confezionare e tenere insieme il tutto. C’è un sottile, delicato equilibrio che lega insieme gli undici brani di questa scaletta, facendo di August and Everything After un percorso profondissimo e magnificamente compiuto dentro la ricerca di senso che ciascuno di noi affronta nel corso della propria vita: in ogni passaggio del disco si respira sempre una forte, bruciante onestà nell’affrontare i giorni che si susseguono spesso senza significato apparente.
Ecco, al di là di tutto questo, delle belle parole che si possono spendere per descrivere questo disco da un punto di vista strettamente musicale, il reale motivo per il quale dovreste ascoltare
August and Everything After (soprattutto se non lo avete mai fatto) è che si tratta di un disco pieno di calda, tenera umanità; un disco di sconfitte, sogni, illusioni e disillusioni, un album gonfio di vita; una serie di storie che non hanno tutte un lieto fine, perché non tutte le storie ne hanno necessariamente uno. Ma è uno di quei dischi che vi faranno immediatamente sentire meno soli perché, paradossalmente, vi insegneranno che ciascuno di noi è solo, ognuno in modo diverso ma tutti parimenti abbandonati a noi stessi: e anche se la vita può a tratti sembrare assurda, e sai bene che non la puoi davvero cambiare con le tue sole forze, non lo sarà mai così tanto da non poterci scrivere una filastrocca sopra, e in qualche modo aiutarsi/aiutarci a esorcizzarla.

Di Woody & Jeremy, duo composto dal buon Woody Goss (Vulfpeck) e dal paroliere e cantante Jeremy Daly, ho parlato svariate volte su questo blog: e anche di Too Hot in L.A. ho già parlato, ai tempi della sua uscita entro l’album Strange Satisfaction (correva l’anno 2020, il 20 marzo in particolare), un pezzo funk trascinante e impreziosito dalla linea di basso dell’ineffabile Joe Dart, come sempre sugli scudi. Vi chiederete, e allora perché stiamo parlando nuovamente di questa cosa? Perché lo scorso 1 Settembre Vulfmon, ovvero l’alter ego messianico ma al tempo stesso autoironico del Deus ex Machina dei Vulfpeck, Jack Stratton, ha fatto uscire il proprio Vulfmix di Too Hot in L.A., fornendo una nuova interpretazione di questo piccolo funk stralunato: la rilettura di Stratton fa di Too Hot in L.A. un funk quasi “matematico”, con l’aggiunta di qualche vibe un po’ anni ’80 e soprattutto di un irresistibile strumming di chitarre che suona un po’ corywongesque e conferisce tutto un altro sapore al brano. Vale la pena ascoltare!

Anche questo mese due sono stati i singoli estratti da i/o, il nuovo album di Peter Gabriel: il 15 settembre è stata la volta del Dark Side Mix di Love Can Heal (opera di Tchad Blake), già ascoltata a fine agosto nella sua prima versione, e il 29 settembre di This is Home, anch’essa nella versione Dark Side Mix di Blake. Love Can Heal è ancora più esile ed evocativa in questa versione profondamente notturna, scandita da suoni acuti e riempita dai cori nei ritornelli. This is Home (già ascoltata live a Milano, lo scorso maggio ) è invece un episodio di grande groove con molti echi del sound Tamla-Motown tanto amato da Gabriel e un Tony Levin decisamente sugli scudi, un pop insolito che inanella nei ritornelli due momenti molto diversi tra loro (sognante il primo, scandito dal coro maschile svedese degli Orphei Drängar; più orecchiabile e easy-listenting il secondo, affidato agli interventi degli archi). Nelle parole dello stesso Gabriel, I think it’s got a groove but unlike most pop songs that have a middle eight or bridge this has two and they are both quite different. The first one is atmospheric and dreamy and we have this amazing all male choir which comes in slowly into this dreamy, garden-like section. The choir, Orphei Drängar, are based in Sweden and I think they get a fantastic sound, it’s dark, stirring and emotional. The strings in the other middle section I really like, it’s quite catchy, poppy in a way. I think John picked up on what I was trying to go for there and did a beautiful job, as always. L’artwork per This is Home è affidato all’opera Conexión de catedral II dell’artista spagnolo David Moreno.

A Settembre è finalmente arrivato l’annuncio: DJESSE Vol. 4, quarto episodio dell’omonima serie di album di Jacob Collier, vedrà la luce il prossimo 29 Febbraio 2024 (e quale giorno migliore di un giorno che viene ogni quattro anni per il quarto disco di questa fortunata sequenza?). A salutare la bella notizia, anche il primo singolo estratto, Little Blue, realizzato col contributo di Brandi Carlile alla voce: ancora una volta, un episodio di pop sofisticato, fatto di spericolate e preziosissime armonizzazioni, e caratterizzato da un’orecchiabilità che lo rende deliziosamente piacevole all’ascolto. La grande capacità di Collier in fondo è proprio questa: saper distillare la semplicità attraverso scelte coraggiose e spesso tutt’altro che semplici. Little Blue non fa eccezione, e fa centro col suo umore dolce, quasi fosse una canzone da albeggio: tenera e ricca, una specie di carezza che avvolge chi ascolta, a patto che si sappia concederle il tempo che richiede. Ah, e anche il video è splendido (opera di Seiya Ito).

E chiudiamo di nuovo dalle parti dei Vulfpeck e soprattutto di Jack Stratton. In attesa di capire se preluderà a un terzo disco del nostro beniamino nelle ormai già iconiche vesti di Vulfmon, il 29 settembre ha salutato anche la pubblicazione di Surfer Girl, singolo rilasciato appunto a nome Vulfmon e realizzato con il contributo di Ryan Lerman alla pedal steel guitar, che altro non è se non una cover del leggendario brano composto da Brian Wilson per i suoi Beach Boys. Con queste vibes un po’ sixties, chiudo il riassuntino di Settembre ricordando che in fondo questo mese altro non è che l’ultimo sussulto d’estate, seguito dal primo profondo, abbacinante calore dell’autunno: e non poteva esserci canzone migliore di questa per farlo.

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