Contrappunti per piano e voce: Alive at the Village Vanguard (Fred Hersch & Esperanza Spalding, 2023)

Pochi luoghi sanno emanare il fascino del Village Vanguard, un palco che ha saputo imprimere un marchio indelebile sulla storia della musica popolare americana del secondo dopoguerra. Aperto nel 1935, il Jazz club sito nel Greenwich Village è stato nella sua storia quasi novantennale un palco privilegiato per il jazz (come tutti sanno) ma anche per la poesia beat, l’altro grande lascito culturale e intellettuale degli Stati Uniti nella seconda metà del novecento. Dal suo palco sono transitati tutti i più grandi artisti della scena Jazz americana e mondiale, da Miles Davis a Horace Silver, da Thelonius Monk al Modern Jazz Quartet, da Sonny Rollins a Bill Evans (cito solo questo, probabilmente una delle più importanti incisioni del novecento) a Charles Mingus a Carmen McRae. Della storia gloriosa di questo luogo fa parte a pieno titolo anche un gigante del pianoforte Jazz come Fred Hersch (centinaia le incisioni del Maesto di Cincinnati sia come leader e compositore che come musicista accompagnatore: vi risparmio una lista che sarebbe comunque non esaustiva), che peraltro è stato credo il primo pianista a ricevere un ingaggio settimanale come solista sul palco del Village. In questo 2023 (in particolare il 6 gennaio) è stato pubblicato dall’etichetta Palmetto Records un album che immortala una residenza del 2018 di Hersch presso il Village e, per esteso, un intero progetto artistico che vede il pianista impegnato sin dal 2013 insieme a Esperanza Spalding (voce, senza il suo contrabbasso) nella riproposizione di un vasto repertorio di meraviglie del jazz cantato: Alive at the Village Vanguard, questo il titolo della registrazione live (This recording sounds like you’re in the best seat in the Vanguard for a very live experience. You can really feel the vitality of the room, of the audience, and of our interplay. We decided on the word Alive for the album title as you can really feel the intimacy and energy of the performances, cliccate qui per leggerne ancora), raccoglie otto brani che vennero originariamente eseguiti dal duo Hersch/Spalding sul palco del Village Vanguard tra il 19 e il 21 Ottobre del 2018. Hersch non è nuovo alla forma del duo: è dello scorso anno, tanto per fare un esempio temporalmente vicino, il suo disco con Enrico Rava, The Song Is You (pubblicato dalla storica etichetta tedesca ECM), scelto da Musica Jazz come miglior album di Jazz italiano del 2022. Più in generale, l’esplorazione delle potenzialità espressive del duo jazz consente al magistero di Hersch di perseguire quella che è la sua più profonda e proficua inclinazione, la ricerca cioè di un incontro artistico, di una consonanza estemporanea che conduca a risultati inattesi, l’idea di andare insieme, muoversi insieme seguendo poche linee concordate e cercando nella libera improvvisazione (che si fa torrenziale dialogo) il senso stesso del proprio fare musica: partire dal suono della tradizione, gli standard, l’enorme canzoniere del Jazz internazionale, e costruire un discorso nuovo, eccitante, che sia ogni volta vivo e quanto più possibile ricco di sorprese. Ascoltando questo disco mi sono convinto che la scelta della parola Alive per il titolo valga sia per l’esperienza che ne fa l’ascoltatore (l’album ti mette proprio al centro della scena, tra le persone, e sembra di poter cogliere il respiro degli astanti oltreché, ovviamente, quello dei musicisti) che, in misura non minore, per il soffio vitale che i musicisti sanno insufflare nelle partiture: dal canovaccio fornito dallo standard nascono nuovi brani che vivono di vita propria, respirano e si dilatano, prendendo direzioni sempre imprevedibili.

È questo il caso del brano che apre l’incisione, la riproposizione di un classico intramontabile del reperto di George e Ira Gershwin, ovvero But Not For Me (un brano al quale sono personalmente legatissimo, per averne studiato a lungo e profondamente la stupenda versione offerta da Chat Baker nel suo album Chet Baker Sings, del 1954), peraltro comparsa tra le nomination per i prossimi Grammy Awards nella categoria Best Jazz Performance. Hersch e Spalding mettono qui subito in chiaro quali siano le loro intenzioni: But Not For Me è riproposta in una versione espansa, che lascia ampio margine al pianista per percorrere fino in fondo ogni momento di libera ispirazione, senza per questo mai cessare il costante sostegno armonico offerto all’esplorazione vocale della Spalding. La voce scivola dolcemente sullo splendido testo e dà il via a quello che diventerà un vero leitmotiv lungo l’intera scaletta, ovvero lo scambio diretto di interazioni col pubblico, pungolato e stimolato continuamente durante l’esecuzione e al quale la cantante si rivolge con costanza, tentando di instaurare un vero e proprio dialogo. Questa sorta di divertito “gioco delle parti” prosegue anche nella seguente Dream of Monk (composizione autografa di Hersch), dominata dal pianismo eclettico del leader e dallo scat della Spalding, che tramuta la sua parte in un lungo, affascinante assolo di voce, un vibrante botta e risposta con gli accordi stravagantemente monkiani snocciolati dal pianista. A Dream of Monk seguono gli accenti bebop della parkeriana Little Suede Shoes, un altro dei momenti più alti della performance, soprattutto per l’irresistibile lavoro ritmico svolto da Hersch sui tasti del suo piano e per la verve della Spalding nel gestire un brano complicatissimo, che oscilla tra lo scat (cui viene affidata la riproposizione del tema) e quello dialogo libero, divertente e divertito con il pubblico che caratterizzava anche But Not For Me (It’s not lost on us/ That it’s technically/ A Saturday night/ And you generously or foolishly have chosen to spend that night/ In a jazz club sitting cramped behind a table/ Bless you/ But since that means there may not be any dancing in your evening/ Just imagine yourself/ In an old Whitney Houston music video/ And you’re the only one/ With suede shoes on/ And you know that when you wear suede shoes/ You can do no wrong/ I didn’t even have to dress up ‘cause I have my suede shoes on/ My little suedе shoes), che si alterna a momenti di vero e proprio cantato. La lunga Girl Talk (composta da Bobby Troup e Neal Hefti) prosegue su questa falsariga, con la Spalding che, nel dialogare col pubblico, cita addirittura Mission Impossible, e introduce così un brano specificatamente rivolto al solo 51% of the population, l’unica metà del mondo che possa pienamente comprenderne il senso senza banalizzarlo (It’s ok, I know it’s not for everyone/ That’s kind of the point): l’eloquio della Spalding scivola deliziosamente sugli accordi accarezzati da Hersch, che ha la capacità quasi soprannaturale di cadenzarne il respiro. Con Evidence, invece, Hersch si confronta direttamente col Magistero compositivo di Thelonius Monk: qui lo scat della Spalding si occupa di gestire il tema, originariamente affidato al sassofono, mentre Hersch ricostruisce l’intrico di geometriche armonie che caratterizzava la versione originale del brano. Evidence è anche una sorta di snodo privilegiato per l’album, un concentrato dell’idea che sta alla base di questo lavoro, ovvero la fascinazione per una musica colta nel suo farsi, mutevole e mai uguale a se stessa: si tratta infatti già di per sé un misterioso oggetto alieno, un flusso mutevole (che nella sua stessa storia avrebbe continuato ad evolversi sino alle ultime versioni realizzate da Monk). Scritto e inciso originariamente nel 1948 per l’album Wizard of the Vibes, il brano avrebbe visto il proprio titolo mutare da Just Us a Justice fino appunto a Evidence e avrebbe continuato a trasformarsi armonicamente fino al 1957, anno in cui raggiunse la forma definitiva (immortalata nell’album Thelonius in Action, pubblicato l’anno seguente). Evidence è la visualizzazione plastica di una musica che si trasforma, che cambia e cresce, alla quale si portano contributi sempre nuovi, che ne modificano il carattere e la rendono un prodotto autenticamente umano. Some Other Time (composta da Jule Styne e Sammy Cahn) torna ai fasti di Frank Sinatra, che la interpretò in una celebre versione: qui il duetto tra Hersch e Spalding si carica di emozione e il pianoforte, carico di tutta la classe infinita del Maestro di Cincinnati, imbastisce un gustoso, delicato accompagnamento per la voce. La successiva Loro incarna l’ideale tributo di Hersch agli amati compositori brasiliani: scritto da Egberto Gismonti, il brano è una bossa delicata, che la Spalding canta gioiosamente con uno scat irresistibile, memore forse del fraseggio di Charlie Parker. Il finale è affidato a un’altra composizione di Hersch, A Wish, una delicata ballad originariamente cantata da Norma Winstone e che la Spalding affronta con deferente trasporto: si crea una sorta di sospensione, la magica sensazione di aver compiuto un salto carpiato indietro nel tempo, al jazz degli anni ’50, e il brano è un’autentica gioia per le orecchie e soprattutto per il cuore.

Le otto tracce che Fred Hersch ed Esperanza Spalding hanno deciso di includere in questo loro Alive at the Village Vanguard si muovono magicamente su un equilibrio sottile, intrise di una leggiadria che è davvero dell’altro mondo: da una parte, la ricchezza espressiva del pianista, formidabile sia che si tratti di gestire complessi incastri di ascendenza monkiana, sia che si muova in territori più meditabondi, più tipicamente da ballad; dall’altra, la voce della Spalding, che davvero non ha bisogno di ulteriori complimenti, capace di dare vita e spessore a ogni passaggio, anche a quelli più tecnici e complessi (anche se forse non esente da limiti, come fanno notare alcuni che se ne intendono senz’altro più di me; ma chi l’ha detto che i limiti non possano essere sfruttati a proprio vantaggio? L’intelligenza risiede proprio in questo, in fondo). Da una parte, quindi, un interprete magistrale del proprio strumento, e dall’altra una delle artiste più sperimentali della scena jazz contemporanea; e tra questi due poli, un repertorio fatto per lo più di grandi standard del jazz vocale, usato come una tavolozza di colori dalla quale partire per concepire e realizzare un affresco nuovo, palpitante, pieno di tante piccole deviazioni e fughe in avanti, una sorta di dialogo che procede per enigmi, declinato al futuro. Alive at the Village Vanguard è un album vivo, che respira e parla una lingua propria, si sviluppa e cresce: ha il suono dei suoi due interpreti, ma anche quello del loro pubblico, ogni colpo di tosse, ogni risata strappata dal palco, ogni sedia malamente spostata, tutto finisce dentro le orecchie dell’ascoltatore e tutto questo insieme è lo spazio all’interno del quale il suono viene veicolato, il messaggio e il messaggero. In qualche maniera, Fred Hersch ed Esperanza Spalding sono riusciti a dare alle stampe un disco di jazz totale, avvolgente e pieno di sorprese sempre nuove (se lo ascoltate due-tre volte di fila, ogni volta noterete un dettaglio che vi era sfuggito la volta precedente): significativo per un album nel quale le canzoni sono assolutamente nude, spogliate degli orpelli e ridotte al loro solo nucleo centrale, un cuore nel quale l’armonia (il pianoforte) e la melodia (la voce) si intrecciano inestricabilmente a trasportare l’emozione, che è ciò che sta al fondo di ognuna di queste composizioni. Nell’assoluto minimalismo della loro veste, questi brani sono portatori di una ricchezza letteralmente incalcolabile, e una bella fetta di questa ricchezza ce la mette anche chi ascolta, e si lascia trasportare e guidare per mano in un percorso che ci ricorda, una volta di più, quanto la musica più colta della nostra contemporaneità sia tutt’altro che morta: come se ce ne fosse bisogno (e non ce n’è), ma fa sempre bene ricordarlo, non foss’altro che per zittire i numerosi Soloni dai quali siamo circondati.

Vi lascio qui di seguito un video live di Girl Talk che non c’entra con la versione contenuta nel disco ma rende bene l’idea.

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