Cronache del concerto perfetto: Peter Gabriel live (i/o tour, Forum di Assago, Milano, 21/05/2023)

Ogni viaggio comincia con la giusta colonna sonora, il suo più adatto accompagnamento musicale. Nel caso del viaggio che ci ha portato al Mediolanum Forum di Assago (Milano) per assistere alla terza data del i/o tour di Peter Gabriel, la seconda italiana dopo quella dell’Arena di Verona di sabato 20 Maggio, la colonna sonora sono stati tre album del collettivo maliano Super Biton de Segou, del quale mi riservo di parlare esaustivamente in un prossimo intervento: mai scelta fu più adatta, considerando quanti elementi della musica africana lo stesso Gabriel abbia da sempre introdotto nella propria prassi compositiva, dai tempi dei primi lavori e fino ai grandi album degli anni ’80 (penso a So e Us, dei quali a suo tempo avevo scritto assai in profondità rispettivamente qui e qui, ma ovviamente l’influenza africana sui lavori dell’artista inglese non si esaurisce con essi). La strada che ci ha portati ai Super Biton de Segou è cominciata (per me) con un post pubblicato sui social qualche giorno fa da Paul Webb, ex bassista dei Talk Talk, che raccontava della propria passione per un disco registrato dal collettivo: lo specifico album citato da Webb non era purtroppo reperibile online, ma Spotify conserva comunque due-tre perle (assai mal indicizzate) del repertorio afro-jazz della band maliana, e la curiosità ha fatto il resto. Vi assicuro che percorrere la pianura padana accompagnati dai ritmi serrati e sghembi imbastiti dalle percussioni, scavate dai graffianti interventi quasi “psichedelici” delle chitarre elettriche, crea una sensazione di sospensione vicina alla trance: e soprattutto diffonde una profonda ondata di gioia musicale, il senso di uno sperimentalismo sonoro spericolato e fecondo, e una freschezza che dopo è difficile ritrovare con la stessa intensità finanche nella musica occidentale che più scopertamente a questi ritmi e a questi stilemi si ispira.

Forse l’ho presa un po’ larga, ma il viaggio per raggiungere Milano è stato decisamente parte integrante della giornata e in qualche modo ci ha efficacemente disposto per seguire il live vero e proprio. Allora per venire al sodo, in rapida successione, c’è da dire che nessuno di noi tre immaginava che si potessero suonare così tanti trentaduesimi e sessantaquattresimi sulla chitarra mentre la batteria fa cose tutte sue e i fiati ondeggiano tra tradizione africana, echi quasi messicani e fughe in avanti in odore di musica tradizionale; che ora che ci ripenso abbiamo cercato per tre ore i testi dei brani dei Super Biton de Segou su internet ma a nessuno è venuto in mente di cercare l’esatta collocazione geografica del Mali (ricordo ancora il compito di geografia del liceo con la cartina muta dell’Africa); che al Forum c’era una file enorme, un afflusso davvero imponente di persone che ci ha spinto, me e i miei due compagni d’avventura, a cercare ristoro in un ristorantino prima di lanciarsi nel gran marasma; che il ristorantino inizialmente mi/ci aveva un po’ preoccupato dato che era esageratamente grande e spaventosamente vuoto; che in realtà la cotoletta alla milanese che ci hanno servito era buona e tanta, e non abbiamo sperimentato alcun effetto collaterale; che è meglio pagare quindici euro per il parcheggio del Forum che lasciare la macchina in uno spiazzo apparentemente gratuito ma incustodito sito poco più in là, che però aveva l’aria di essere teatro di gare motociclistiche non autorizzate tra bande rivali; che ad entrare non c’è voluto molto, d’altronde la fila era già molto diminuita a quel punto, ma che purtroppo mi hanno fatto lasciare fuori la mia preziosissima borraccia termica (“scatta una foto e te la riprendi dopo”: sigh), causandomi una certa ansia (e dire che sono bravissimo a gestire l’ansia…); e che i posti che alla fine eravamo riusciti ad accaparrarci erano, come dire?, lievemente decentrati rispetto al palco. Sarò onesto: ero consapevole di aver comprato dei biglietti per posti con “Visibilità Limitata” (d’altra parte stava scritto anche sopra il ticket stesso), ma non mi aspettavo di finire praticamente dietro un tabellone, con uno scorcio ridicolo di palco accessibile alla vista. Per togliervi l’eventuale magone vi dico subito che la cosa poi non è andata così male: i posti erano davvero molto vicini al palco e soprattutto, nel corso della serata, il settore è andato progressivamente svuotandosi, col risultato che ci siamo potuti via via spostare fino a guadagnare una porzione di palco molto più ampia, sebbene sempre decisamente laterale (io sono praticamente arrivato al settore C7, partendo dall’estremità sfigata del C8).

Uno potrebbe dire: vabbè, ma ci vai per sentire la musica. E io sono d’accordo, infatti ero contento anche così. C’è però un aspetto che ha il suo peso quando si parla di Peter Gabriel, e questo riguarda la multimedialità del suo lavoro: Gabriel ha sempre dato un enorme valore alla contaminazione tra audio e video, alla multimedialità intesa nel suo senso più ampio, nel tentativo di creare esperienze di fruizione che fossero sempre a tutto tondo, complesse e stratificate, avvolgenti; questo lo ha fatto (e lo fa tuttora) accompagnando le proprie opere musicali con DVD-rom pieni di contenuti dedicati (accadeva ai tempi di Us), collegando a ciascuno dei suoi brani un artwork specifico e dedicato (succede in questo esatto momento con le uscite da i/o, come sa bene chi legge i RoundUp mensili su queste pagine), e lo fa soprattutto negli show dal vivo, laddove le proiezioni, i giochi di luci, le questioni più puramente scenografiche non sono solo forma ma autentica sostanza, e contribuiscono a conferire spessore all’esperienza complessiva offerta dalla musica. Insomma, Gabriel non è uno che proietta un filmino dietro il palco per fare scena: quello che accompagna la performance è qualcosa che della performance stessa è parte, in un processo interattivo che coinvolge sia chi sta sul palco (la musica dialoga con l’immagine, al punto che, in uno dei passaggi della serata, è lo stesso Gabriel a interagire con gli schermi, letteralmente disegnandoci sopra usando una specie di pennello wireless), sia chi sta in sala, che può fruire della multidimensionalità dell’esperienza complessiva. È per questo che mi rimane il gran dispiacere di non aver potuto godere della scenografia, soprattutto del non aver potuto godere della giusta immersione nel discorso sonoro/visuale complessivo, negata proprio dalla disposizione sfortunata dei posti; non che non si sia apprezzato niente, brandelli dell’esperienza sono stati comunque colti, ma la visione estremamente periferica ha tolto una parte dello spettacolo dagli occhi. Quello che però non ha potuto fare è togliere la meraviglia dalle orecchie, perché dal punto di vista musicale credo si possa dire che abbiamo assistito a uno spettacolo di livello assoluto.

Innanzitutto, la setlist del concerto è stata la stessa già ascoltata a Verona e Cracovia nelle prime due tappe del tour: 23 brani divisti in due set (il primo da dieci pezzi, il secondo da undici) con due encore a chiusura per un totale di circa tre ore di musica. Gabriel è salito sul palco alle 20:10 circa, vestito come uno dei tecnici di palco del tour, quindi con una tuta arancione, di modo da passare inizialmente inosservato: in questa uniforme l’artista ha introdotto il concerto con un breve testo letto in italiano (il primo di una serie di interventi nella nostra lingua che, inframezzati ad altri in inglese, hanno accompagnato l’intera esibizione) incentrato sul tema della comunicazione tra gli esseri umani, del rapporto tra la realtà e l’immaginazione, della riflessione sull’intelligenza artificiale e quella “naturale”, o per meglio dire “culturale”. Il breve discorso introduttivo, toccando anche spiritosamente molti dei temi che confluiscono nei brani scritti per i/o (mi riferisco in particolare al siparietto durante il quale Gabriel ha scherzato sulla possibilità che la sua immagine, visibile sul palco, altro non fosse che uno suo avatar di venti anni più vecchio e 10 kilogrammi più grasso, mentre il suo vero io si sarebbe trovato al sole dei Caraibi), è risultato il pretesto per la creazione di un contesto narrativo volto a riflettere sulla nascita della parola (e quindi, per esteso, della comunicazione tra gli uomini): la suggestione offerta dall’artista è stata quella di immaginare che il linguaggio, come oggi comunemente lo intendiamo, possa essere nato, migliaia di anni fa, in una comunità raccolta attorno al fuoco, impegnata a confrontarsi usando un linguaggio ancora pre-verbale, puro suono, e cioè musica, ritmo, intonazione, melodia. L’accensione scenografica di un fuoco al centro del palco ha ricreato l’immagine dell’alcova per la piccola comunità e la sua parola, e il concerto è iniziato con Gabriel che, accompagnato dal mitico Tony Levin al suo Music Man Stingray 5, si è seduto attorno alla fiamma avviando una versione acustica della bellissima Washing of the Water, tratta da Us. Ai due si è poi aggiunta l’intera, fantastica band che accompagna il tour: gli altri sodali di vecchia data David Rhodes (chitarre) e Manu Katché (batteria), la straordinaria Ayanna Witter-Johnson (violoncello, tastiere e una voce splendida), Marina Moore (violino e cori), il tastierista Don-E, Richard Evans (chitarra, flauto e voce), Josh Shpak (tromba, corno, tastiere, voce) e Don McLean (tastiere e voce). Dopo Washing of the Water e prima di prendere posto sul palco, la band intera ha eseguito attorno al fuoco una versione acustica di Growing Up (tratta invece da Up, del 2003).
Avvio acustico a parte, il primo set è dominato dai brani tratti da
i/o: Panopticom, Four Kind of Horses, la titletrack i/o, Playing for Time e le inedite Olive Tree e This is Home, alle quali la band intervalla una riproposizione stellare del classicone Digging in the Dirt (ancora da Us). Il set si chiude nell’apoteosi di Sledgehammer, con tanto di balletto inscenato sul palco dal trio Rhodes-Levin-Gabriel.
Dopo una breve pausa, il secondo set presenta i nuovi brani
Love Can Heal, Road to Joy, The Court (questa già ascoltata nei mesi passati), And Still, What Lies Ahead (queste ultime due dedicate dall’artista alla madre e al padre) e soprattutto la splendida Live and Let Live: a questi brani la band alterna pochi ma ben selezionati classici del repertorio di Gabriel, ovvero Darkness (ancora da Up) in apertura di set, una scintillante versione di Don’t Give Up sulla quale il buon Peter duetta con la splendida Ayanna Witter-Johnson, una fantastica riproposizione di Red Rain (come Don’t Give Up proveniente dal classico So del 1986) e poi il divertissement di Big Time (sempre da So), per chiudere infine il set sull’irresistibile giro di chitarra del super-classico Solsbury Hill, estratto dal primissimo album solista del nostro, datato 1977.
Alla seconda uscita dal palco della band segue il rientro con un primo encore rappresentato da un altro dei grandi classici del repertorio della band, ovvero
In Your Eyes, in una versione espansa nella quale Gabriel duetta ancora con Ayanna Witter-Johnson, e infine chiude la serata con un secondo bis affidato alla riproposizione di Biko, altro dei brani più noti dell’artista, accompagnata dal coro del pubblico e da un tripudio di pugni chiusi alzati al cielo (peraltro Biko riporta tutto a casa, in termini di influenze africane). La band abbandona progressivamente il palco, Gabriel in testa, con Manu Katché che resta l’ultimo ad alzarsi ed uscire. Le luci si accendono all’interno del Forum di Assago, e il concerto finisce.

La sensazione più chiara che ho ricavato da questa serata è che Peter Gabriel sia un’artista in salute, che ha ancora molto da dire e forse anche qualcosina di non scontato da insegnare (su come si gestisce un palco, su come si imbastisce una narrazione dentro un concerto), con una band stratosferica alle spalle in grado di offrire uno spettacolo eccezionale. Io, e qui parlo da musicista e in particolare da bassista, sono un fan sfegatato di Tony Levin (come forse avrà intuito chi legge queste pagine un po’ più che occasionalmente): ritrovarsi a pochi passi da un musicista di quella eleganza e di quel gusto è qualcosa che non capita tutti i giorni, e sono sicuro che anche chi va a vedere concerti come questi solo perché fan di Gabriel abbia imparato, negli anni, ad amare e apprezzare le doti straordinarie dei musicisti che lo accompagnano (certo Levin, amatissimo ovunque ma soprattutto dalle nostre parti, ma anche gente come Rhodes o Katché, che assolutamente non hanno bisogno di presentazioni). Ora, due impressioni sparse su Tony Levin. Dovete capire che questo signore è un’autentica macchina da guerra: che stia suonando il suo Stingray 5 o uno splendido Darkray 5 (usato per una buona parte dei brani), che brandisca il suo Music Man Sabre 4 corde o un fretless, che si tratti di suonare il Chapman Stick (come in Road To Joy) o il contrabbasso elettrico, anche con l’archetto (come in Live and Let Live), potete star certi che saprà sempre cosa suonare e soprattutto cosa NON suonare, quali note scegliere e come asciugare le proprie parti, e che lo farà con un’intenzionalità e un gusto musicale che non sono da tutti. Levin è unico, e lo sappiamo: ma in questa band ci sono anche altre individualità di spessore assoluto. Dei già più che noti Katché e Rhodes ho detto (ma non è che ci fosse molto da aggiungere): la vera sorpresa, almeno per chi scrive, che non la conosceva prima di questa serata, è Ayanna Witter-Johnson, straordinaria al violoncello nei suoi interventi con la bravissima Marina Moore e veramente stupefacente alla voce, protagonista di alcuni duetti stratosferici con Gabriel (basti pensare che in Don’t Give Up non fa rimpiangere una certa Kate Bush, che cantava l’originale, e con questo ho detto tutto). Davvero una musicista da seguire, forse la vera punta di diamante di una band per la quale non sembra eccessivo usare l’appellativo di “assolutamente eccezionale”. E Peter Gabriel? Beh, Peter Gabriel è Peter Gabriel, con tutta la sua presenza scenica, una voce ancora meravigliosa, e la forza di correre e saltare sul palco come non sentisse nemmeno un terzo dei suoi settantatré anni appena compiuti (è nato il 13 Febbraio del 1950). Se dovessi scriverlo in inglese, non mi sembrerebbe inappropriato (sebbene forse non proprio originalissimo) dire che Gabriel sia 73 years young: ed è sicuramente la curiosità che continua a spingerlo nella sua ricerca musicale, la voglia di mescolare le carte, trovare nuove direzioni, cercare qualcosa di diverso. Gabriel è uno che ha messo la musica africana dentro il pop-rock occidentale prima che venisse in mente a tutti gli altri (visto che parlavamo di afro-jazz maliano), ma è stato anche una delle grandi voci (e delle grandi penne, non dimentichiamo che è anche e soprattutto un autore, un songwriter) del progressive rock; ha flirtato col funk, si è lasciato contaminare dalla black music, ha sposato e approfondito la ricerca sulla musica elettronica; ha composto colonne sonore, partiture musicali, elaborato doppi album di cover proprie suonate da altri artisti e risuonato a sua volta brani altrui facendoli sempre propri; ha scritto alcune delle pagine più memorabili della musica pop e del rock dell’ultimo quarantennio. E se tutto questo vi sembra un bel discorsetto che si fa per qualcuno che in fondo non ha più niente da dire, sappiate che è proprio questo il bello: Peter Gabriel ce l’ha eccome qualcosa da dire, proprio come 46 anni fa, quando abbandonò la band prog più famosa del pianeta all’apice del successo per lanciarsi nel vuoto dell’avventura solista; perché quando hai ancora la voglia di rischiare, sperimentare, la curiosità di cercare cose nuove, non invecchi davvero nemmeno di un giorno. Ogni passaggio dell’esibizione dell’artista è stato magnetico, capace di risucchiare il pubblico dentro la magia della musica: tutti intenti a godere dello spettacolo con gli occhi e le orecchie, il cuore e la mente, in un quasi religioso silenzioso. L’atto davvero rivoluzionario che si può compiere se si ama la musica è concederle lo spazio che merita, offrirle ascolto, accettare la scoperta: in un momento insieme intimo e collettivo, queste tre ore di musica sono riuscite nell’impresa di trasportare il pubblico dentro la musica, anche dentro quella nuova, mai sentita, senza che questo sforzo fosse minimamente penoso (sappiamo tutti quanto possa essere difficile ascoltare dal vivo brani completamente inediti senza quindi, per ovvie ragioni, poterli cantare o canticchiare); la scelta di proporre una larga fetta di brani provenienti da i/o, oltre che ovvia perché si tratta pur sempre del tour di presentazione dell’album, è anche coraggiosa se si considera come l’album intero non sia stato ancora pubblicato nella sua versione integrale, e quindi molti di questi pezzi siano ancora ignoti ai più. Eppure, proprio i brani che non avevo mai ascoltato sono quelli che mi sono rimasti più impressi: Live and Let Live, Love Can Heal, And Still. Non era facile rendere fruibili questi brani ad ascoltatori che non li avevano mai sentiti: ma niente è impossibile quando ti chiami Peter Gabriel e hai con te una band come quella che abbiamo potuto ammirare a Milano. Molto poco di ciò che la band ha suonato sul palco del Forum di Assago rispettava i crismi del pop così come comunemente lo concepiamo: molto più spesso, anzi, la musica aderiva pienamente a scelte sonore distanti dal mondo pop, che andavano in una direzione di ricerca e rarefazione decisamente accentuata, scelte anche complesse (ritmicamente, armonicamente), e questo con particolare evidenza nel secondo set, più ricercato ed essenziale, caratterizzato da maggiori orchestrazioni, da passaggi strumentali più avventurosi. Un’esperienza stratificata, ricca, affascinante: complessa ma sempre assolutamente godibile, e proprio in questo risiede la magia. Forse non è vero che non c’è spazio per la complessità nel mondo di oggi, che invece di complessità è ricco: c’è sempre un posto per la musica che parla della contemporaneità e non si nega al domani, e questa senz’altro lo è.

Insomma, te ne vai dal Forum con la sensazione di aver assistito a qualcosa di grande e soprattutto qualcosa di tanto presente, qui e ora, quanto profondamente rivolto al futuro: la speranza è che Peter Gabriel non ci faccia aspettare altri vent’anni per ascoltare nuova musica, una volta che i/o sarà infine pubblicato. Voglio chiudere questo “breve” resoconto con una nota di speranza, diretta a quei cinque lettori che fossero ancora tormentati dal destino della mia borraccia termica: sono riuscito a recuperarla. Come si suol dire, tutto è bene quel che finisce bene (e con una bella colonna sonora, prima, durante e dopo).

Le foto e i video che corredano questo post sono trovati su internet, sfortunatamente non avevo materiale di qualità sufficiente (rimando per questo tema alle considerazioni sulla posizione dei posti a sedere ecc. ecc., ne parlavo nel post). Il copyright delle immagini appartiene ai legittimi proprietari.

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