Umano, troppo umano: Be The Wheel (Theo Katzman, 2023)

A tre anni dal bellissimo Modern Johnny Sings: Songs in the Age of Vibe, pubblicato nel 2020 poco prima dell’esplosione della pandemia e del quale ho parlato ampiamente qua, Theo Katzman è tornato ad aggiungere un nuovo capitolo alla sua carriera solista, orientata a un songwriting che prende ispirazione tanto dal soul quanto dal rock, distillando i molti riferimenti del suo autore in un folk-pop con reminiscenze che conducono dritto dritto a gruppi come i Fleetwood Mac (Stevie Nicks è da sempre un riferimento dichiarato di Katzman) e, insieme, alla grande tradizione americana del soul. Per questo Be The Wheel, realizzato con la nuova etichetta e distribuzione 10 Good Songs, emanazione dello stesso Katzman, accompagnato da un crowdfunding online per la stampa di un’edizione limitata del vinile e pubblicato ufficialmente lo scorso 10 Marzo, il buon Theo si è circondato ancora una volta di musicisti fidati: innanzitutto Sua Maestà Joe Dart al basso, direttamente da casa madre Vulfpeck, a cui si aggiungono Jordan Rose (batteria), David Mackay (piano, wurlitzer, synth e organo) e Mike Shea (percussioni) oltre agli interventi di James Henry Jr. (chitarre e backing vocals su 5-Watt Rock, tastiere), Seth Bernard (backing vocals sempre su 5-Watt Rock), Charlotte Greve (sassofono e flauto) e Stuart Bogie (sassofoni baritono e tenore).
Nelle undici tracce che compongono l’album ritroviamo le atmosfere del lavoro precedente, orientate però nella direzione di un racconto (se possibile) ancora più intimo, privato, e con molte vibrazioni che rimandano direttamente alla musica da viaggio. In un certo senso,
Be The Wheel è un disco molto “fisico”, e non solo per la sua natura prettamente “suonata” (nelle esecuzioni si possono quasi sentire le mani dei musicisti, il loro contatto con lo strumento): dentro queste tracce si assiste a un autentico “spostamento”, un viaggio che non è solo metaforico, ma anche incarnato, reale. Non a caso l’album, da un punto di vista dei testi, è nato in larga parte proprio durante un viaggio in auto attraverso gli States (viaggio del quale Katzman, tra le altre cose, parla diffusamente in questa interessantissima intervista): nutrendosi della meraviglia mutevole offerta dal panorama americano che scorre al di là del finestrino dell’automobile , Be The Wheel intesse una trama in magico e radicale equilibrio tra il “racconto on the road” e lo zibaldone intimista, tra la riflessione globale-sociale-politica e il journal intime, un diario delicato dal quale emergono storie d’amore consumate o irrealizzate, brandelli di vita quotidiana e un personalissimo rimuginare sul proprio posto nel mondo. In tutto questo, a spiccare è ovviamente il songwriting di Theo Katzman, sempre assolutamente personale per quanto saldamente ancorato alla grande tradizione narrativa americana, ora tenero e ora graffiante, originale e coraggioso, ricco di splendide immagini, ironico (e fortemente auto-ironico) tanto quanto malinconico: perché sono soprattutto le parole a fare di Be The Wheel qualcosa di speciale.

L’album è incentrato su una ricerca, in particolare quella del proprio modo di essere ciò che si è (un po’ sullo stile dell’Ecce Homo di Nietzsche, incorniciato in quel sottotitolo, “come si diviene ciò che si è”). Nelle sue undici tracce, Be The Wheel suggerisce come questa necessaria riscoperta del proprio posto nel mondo possa avvenire solo attraverso un ritorno alla semplicità che non è però da intendersi come una banale negazione della complessità del reale, ma come il tentativo di affrontare il nostro sviluppo personale da una prospettiva umana, troppo umana (giocoforza l’unica possibile per esseri fallibili e fatti di carne e ossa quali tutti noi siamo). Dentro un mondo che a volte sembra impazzito come una centrifuga, e durante un tempo che è stato (ed è tuttora) insolitamente complesso e avverso, il tempo della pandemia, del distanziamento e di tutta una serie di nuove solitudini, trovare un luogo per coltivare umanità può apparire a tratti come un doloroso miraggio.

Un ottimo esempio di questi temi ricorrenti nell’album è la sua titletrack, Be The Wheel, dalla quale si inizia l’ascolto: a tutti gli effetti, un’autentica dichiarazione di unicità (Don’t be the next best something (just be the)/ Don’t be the second coming/ Just be that holy one thing:/ Be the wheel), costruita musicalmente sull’adorabile falsetto del buon Theo, con un bridge che ha qualcosa della luminosità dei grandi classici del soul (mi torna in mente soprattutto la produzione di Marvin Gaye). A Be The Wheel fa seguito l’andamento irregolare e saltellante del riff di Hit The Target, disegnato dal Juno di Dave Mackay e incalzato dai bassi rotondi del buon Joe Dart, un po’ nostalgia degli anni ’80 e un po’ power-pop di gran classe (Put down your fist, you can’t just hit yourself in the head/ You have to hit the target instead). Quando Hit The Target si spenge è il momento di Corn Does Grow, altra gigantesca riflessione sulla necessità umana di trovare un punto d’incontro, condotta attraverso la metafora della natura che compie il suo corso (At the corn ranch/ We don’t have no flag to wave/ We don’t no face to save/ We don’t have no ammunition/ We just row our little boat/ Ever gently down the stream/ If the truth is gonna float/ Then the lie is gonna sink): voce e chitarra sovracompresse fino quasi al fastidio creano un magma sonoro intenso e molto violento, che si riversa nelle orecchie dell’ascoltatore assieme al lancinante solo di chitarra, per un episodio di rock incarognito tutto ritmo e distorsione. La delicata ballad The Only Chance We Have torna ancora a riflettere in maniera molto esplicita (Ten years of friendship flushed down the toilet/ Click of a button/ And now we’re fighting a war/ Each on an island, totally silent/ But oh, the feeling) sul tema della difficoltà dei rapporti umani nell’era dell’internet rage, con tanto di riferimento all’ipersemplificazione con la quale l’informazione ci rende stupidi invece di darci gli strumenti per comprendere il mondo che ci circonda (Here come the headlines/ Keeping it simple/ Likе cops and robbers/ Like good and evil/ As if thе devil ain’t in the details): musicalmente, la voce di Theo scivola accompagnata dal solo pianoforte prima di un finale “al completo” nel quale batteria e basso indicano nuovamente la stella polare ritmica, conducendo il brano in porto. A dispetto del suo titolo, 5-Watt Rock è una pop-song perfetta, assolutamente irresistibile, di quelle che ti restano piantate in testa e che ti ritrovi a fischiettare per tutto il giorno: il falsetto di Katzman si arrampica qui sulla linea di basso del buon Joe, che mette in moto un motore ritmico ulteriormente arricchito dall’apporto dei fiati suonati da Stuart Bogie (in particolare il sax baritono). Anche 5- Watt Rock, a suo modo, è una dichiarazione di unicità e indipendenza, come lo era Be The Wheel: a volte non serve chissà cosa per trovare il proprio posto nel mondo, sembra dirci Katzman, basta un piccolo amplificatore da 5 watt che ti permette di fare del buon vecchio rock’n’roll (Remember that gal back in verse one (yeah!)/ Would you believe we fell in love?/ We had a kid and the kid’s a champ/ And it’s all thanks to my little five-watt amp/ All that I got, all that I need/ All the way up, let it bleed/ It’s all that I know, 1, 2, 3/ Five watts to make you my baby).

Dopo un lato A suonato a tutto volume, Be The Wheel prende una svolta molto più dolce nelle sue ultime sei tracce, altrettante ballad nelle quali Katzman torna ad esplorare tutto il suo universo cantautorale fatto di storie d’amore finite, di crisi esistenziali e finanziarie (si riaffaccia alla mente il delizioso titolo del suo primo album solista, Romance Without Finance), di un’umanità tanto semplice quanto preziosa. Si comincia con You Gotta Go Through Me, racconto di quelle affinità d’anima che a volte si palesano, una storia d’amore chiusa senza vincitori né vinti (And if it’s a story/ Worth being told/ A heart that’s open/ Is a hеart that’s broke) tra due solitudini che si completano: è ancora lo strepitoso falsetto del buon Theo a rubare la scena, sostenuto da una band impeccabilmente al servizio della volontà espressiva del brano (si segnala il finale da pelle d’oca quando Theo canta l’ultimo But first, you gotta go through me). Più leggero il mood di She’s In My Shoes, racconto di un amore tanto forte da diventare quasi identificazione: stavolta è una ritmica più definita ad accompagnare una classica Katzman-ballad, una love song piena di immagini delicate e semplicemente efficaci (The windows down/ Radio’s on/ And on every station/ She’s in the song), capace di evocare tenere atmosfere domenicali, e impreziosita soprattutto da un bellissimo e melodicissimo assolo del solito Joe Dart al suo Music Man. La successiva Smiling In Your Sleep è probabilmente una delle vette più alte raggiunte da Katzman lungo questo lavoro, una ballad jazz nello stile del Chet Baker più romantico che il buon Theo affronta vocalmente come un soul confessionale, da consumato crooner: la delicatezza di un notturno pianistico che pesca a piene mani da una tradizione sconfinata di jazz-songs incontra le spazzolate discrete della batteria di Jordan Rose e l’accompagnamento trattenuto e minimale (ma non meno groovy) di Dart. A completare questo quadro di magnificenza sonora (e lirica: And that’s why I will kiss you/ In the middle of the night/ So I can see you smiling in your sleep) mancano soltanto le melodie deliziose della tromba del suddetto Baker, e però forse ora staremmo parlando di qualcosa di diverso: in ogni caso, Smiling In Your Sleep, pur nella sua personale reinvenzione, mostra un rispetto sconfinato per la grande tradizione del jazz vocale e si nutre di quelle stesse atmosfere fumose, notturne e malinconiche, aggiornandole però ai nostri tempi incerti e sposandole mirabilmente alla struttura del brano pop, senza sacrificare né le une né l’altra. In That’s The Life, Katzman racconta ancora le difficoltà del crescere e trovare la propria direzione (I wanna listen to the ancients/ Find the glitches in the matrix/ And get back to the basics) e Sua Maestà Joe Dart sale sugli scudi con la linea di basso più “presente” di tutto il lotto, incastrata dentro un riff di pianoforte “muted” rendendo l’intero pezzo in realtà una macchina puramente ritmica, nella quale il contenuto melodico è portato quasi unicamente dall’intervento vocale di Katzman (che si produce anche nel doppiare cantando il proprio solo di pianoforte, in un piccolo episodio quasi scat). La bellissima Desperate Times contiene uno dei ritornelli più belli che mi sia capitato di ascoltare di recente (Cause when the big get weird, the weird get high/ It’s when you dance with death that you know you’re alive/ I’ve got some good mezcal and the will to survive/ Yes these are desperate measures/ But these are desperate times) ed è, al contrario di quelle ascoltate nel lato A del disco (ma un po’ come, con atmosfere e mood differenti, She’s In My Shoes), una dichiarazione di dipendenza assoluta, in questo caso da un amore e dalla speranza che porta con sé: il brano inizia con un duetto piano-voce che ha qualcosa dello stile di un altro grande cantore di storie come Ben Folds, ma ben presto Desperate Times si apre su un pieno strumentale garantito da una band in assoluto stato di grazia (con l’aggiunta di James Henry, Jr. alle chitarre), proponendosi come un altro dei vertici assoluto dell’intero lavoro. A chiudere il disco giunge il rock lieve, gonfio di un romantico afflato folk, di Nobody Loves You Like Your Mother, nel quale Katzman torna a raccontare l’universo femminile come già aveva fatto nella bellissima ode Like A Womand Scorned contenuta in Modern Johnny Sings: Songs in the Age of Vibe: I came to know her/ In all of her grace/ Her words of wisdom/ The smile on her face/ I learned to listen/ Instead of just scream, oh/ I heard the music/ Inside her heartbeat canta Katzman, e il suo canto è una preghiera (una delle tante disseminate lungo la tracklist), cantata con un senso di intimità che l’accompagnamento musicale assolutamente scarnificato del brano (solo Theo e la sua chitarra) non fanno che ribadire, con un trasporto che spiazza e commuove. Be The Wheel si chiude quindi in un silenzio delicato, quasi compassato ma sempre emotivamente profondissimo, dopo 45 minuti di grande musica ad accompagnare un altrettanto grande scrittura.

Quello che colpisce soprattutto di Be The Wheel è l’ormai totale maturità compositiva del suo autore: Theo Katzman, a 37 anni appena compiuti, è ormai un cantautore in grado di scolpire un immaginario sonoro e lirico personalissimo e profondissimo, tanto ricco quanto enormemente diverso da quello della band che lo ha reso famoso, ovvero i Vulfpeck capitanati da Jack Stratton. Lo stupore si accresce se si considera come, oltretutto, questo Be The Wheel sia stato realizzato nello stesso periodo durante il quale la band (e quindi lo stesso Katzman) era impegnati nella stesura dell’ultimo album Schvitz (come sarebbe a dire che non lo avete ancora ascoltato?? E non avete letto nemmeno la nostra dettagliatissima recensione?): coltivare allo stesso tempo e con la stessa attenzione due mondi musicali così profondamente diversi, riuscendo a dare alle stampe un album solista intimo e complesso come Be The Wheel, testimonia efficacemente della dedizione e del controllo raggiunto dal buon Theo sul proprio materiale sonoro e letterario. Un controllo, va da sé, che è tipico dei grandi: un equilibrio fragile ma potente tra una scrittura sempre evocativa (pur nella sua apparente semplicità) e un panorama sonoro tanto sfaccettato quanto solido, edificato sulla tradizione e che pure non rinuncia a slanci di assoluta, originalissima contemporaneità. Non manca mai, lungo le tracce, la volontà di osare: basti pensare, per ragioni opposte ma complementari, all’inusitata sovra-compressione di Corn Does Grow o alla delicatezza con la quale, in Smiling In Your Sleep, si affronta (aggiornandola) la grande tradizione della jazz-ballad. In ogni caso, Katzman è in grado, col supporto di una band di altissimo livello, di far propria la materia e plasmarla al proprio fine espressivo: una dote che va oltre la tecnica e assume le dimensioni del dono. Come accennavo brevemente in precedenza, Be The Wheel è un album che parla di molte solitudini, spesso assai differenti tra loro: lo fa col piglio narrativo del grande racconto americano, che è tradizionalmente un racconto di paesaggi sconfinati, viaggi e frontiera. Mentre mettevo insieme quest’analisi, mi sono sorpreso a ripensare a due versi di César Vallejo che Sam Shepard aveva scelto di porre in esergo alla propria bellissima raccolta intitolata Motel Chronicles, e che credo che si adattino magnificamente anche alle atmosfere del racconto di Be The Wheel: “mai la lontananza attaccò così da vicino”. Motel Chronicles è uno dei testi ai quali ritorno più spesso, quando si tratta di pensare alle mie personali solitudini, alla loro vastità, profondità e ricchezza: mi piace pensare che, forse, anche Be The Wheel possa aver attinto alle stesse sensazioni (per quanto non creda che ci sia un collegamento tra le due opere) per dipingere il suo delicato affresco sulla fragilità umana.

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