“Forget our fate”: i primi 25 anni dell’ultimo album di Mark Hollis (self-titled, 1998)

“I wanted to make a record where you can’t hear when it has been made. Two albums that I really like are ‘Sketches Of Spain’ and ‘Porgy And Bess’, records that Miles Davis made with Gil Evans. They used arrangements and a loose manner of playing (their instruments) for a clear atmosphere and suggestiveness. I wanted to create that as well. I also very much like the character and the realistism of acoustical instruments. Important was also that the atmosphere of the room where the recordings took place had to be hearable on the record. That’s why I adjusted the volume of the instruments, so the manner these instruments resonate (echoe/sound) are a part of the total sound. I looked for instruments who could grow above the limitations of a certain style like a clarinet, trumpet and flute. To let the sound of the room be heard, the producing was in this case to relax the musicians and give them a chance to find their own interpretations. We only used two microphones. We searched a long time to find the right balance, we placed the musicians on different locations, that’s the way the sound and the resonance are built up. Recording in its purest form, really, like in the old days. To me the ultimate ambition is to make music, that doesn’t have a use by date, that goes beyond your own time.”

Un quarto di secolo: tanto tempo è passato dalla pubblicazione, avvenuta il 26 gennaio del 1998, di questo album, l’ultimo vero album licenziato in vita da Mark Hollis, voce e principale compositore dei Talk Talk. Mark Hollis, questo, semplicemente, il titolo del lavoro, era parte di un contratto per due dischi stipulato dalla band con la Polydor ai tempi di Laughing Stock, dopo la fuga dalla EMI (accompagnata da tutti i ben noti strascichi legali) a seguito del fallimento commerciale del seminale, bellissimo Spirit of Eden (del quale ricorrono quest’anno, a Settembre, i primi 35 anni di vita, che degnamente celebreremo con un post ad hoc). Dopo la defezione di Paul Webb, avvenuta prima delle registrazioni di Laughing Stock, anche Lee Harris lasciò la band: i due si avviarono a una serie di altri progetti, come gli O.Rang, essenzialmente volti verso quello stesso post rock che, insieme a Hollis, avevano contribuito a creare dal nulla appunto con Spirit of Eden, e per Paul Webb si aprirono le porte di un’ottima carriera solista sotto il moniker di Rustin Man. Anche il sodalizio con Tim Friese-Green, quarto membro di fatto dei Talk Talk, si interrompe per questo ultimo capitolo dell’avventura di Hollis: qui il compositore e cantante inglese è solo, coadiuvato nella composizione soprattutto dal producer anglo-canadese Warne Livesey. Sarebbe stato l’ultimo disco di Hollis, il suo definitivo commiato dalla scena musicale: a questo album sarebbero seguiti un paio di altri brani, qualche collaborazione, ma poi più niente. Il silenzio, infine, la scelta di assentarsi dolcemente, in modo non negoziabile, senza dover rivendicare niente, o suggerire altro, nella profonda convinzione che tutta la musica prodotta già parlasse da sé, disegnasse una parabola, una cesura con il resto, una profonda rottura. In questo ultimo capitolo della storia di Hollis anche la scelta della cover art è già di per sé una scelta di rottura: si tratta della foto di un dolcetto pasquale in forma di agnello (scattata da Stephen Lovell-Davis in Italia), della quale lo stesso Lovell-Davis scrive, in un post Instagram, che Hollis la scelse “much to the consternation of the record company.” Nelle parole dello stesso Hollis, “It is the lamb of God, made of bread. On Sicily at easter there is a festival for which the make these breads. I like the way something appears to come out of his head, it makes me think of a fountain of ideas. Also the manner how the eyes are positioned fascinates me. When I saw the picture for the first time I had to laugh, but there’s some very tragic about it at the same time.”

La musica contenuta in Mark Hollis ha un’aura quasi sacrale: Hollis voleva ottenere un effetto analogo a quello che gli suscitavano due dei suoi album preferiti, Sketches of Spain e Porgy and Bess, entrambi realizzati da Miles Davis con l’orchestra di Gil Evans, caratterizzati da una grande cura degli arrangiamenti e da un interplay disteso, miracolosamente efficace, ottenuto grazie alla naturalezza estrema dei musicisti nell’approcciare la propria strumentazione. Meno post-produzione, quindi, e una dimensione prettamente acustica: Hollis desiderava sentir vibrare le casse degli strumenti, risuonare le corde, distinguere il pizzicato degli strumentisti, o il peso delle dita sui tasti del pianoforte. L’esperienza dell’album è quindi assolutamente naturalistica, come la sua resa sonora: Mark Hollis fu registrato usando soltanto due microfoni, disposti in una stanza in maniera da coprire efficacemente l’intero fronte sonoro e così da restituire, soprattutto, gli spazi e i riverberi naturali dell’ambiente stesso. Lungo le otto tracce che compongono la tracklist si riesce quasi a sentire il respiro dei musicisti, tanto è tesa l’esecuzione, tanto limpidi sono i suoni: di certo, la musica prosegue in accordo a questo respiro, a un ritmo naturale, spesso inespresso, ellitticamente sotteso, ma sempre umano, troppo umano, inseguendo una catarsi luminosa. Per usare le parole dell’ingegnere del suono Phill Brown, che aveva lavorato anche alle session di Laughing Stock: “I was a huge fan of the Colour of Spring album, a classic ’80’s pop record. Spirit of Eden I find beautiful and calming. Laughing Stock is a different beast. I am very proud of the album, it’s probably one of my best projects…. but I find it dark and claustrophobic. As to Mark’s album, I think it is the opposite to Laughing – open, restful and at times fantastically beautiful. Talk Talk were quite unique, and Mark’s writing always atmospheric”.

Come per i due lavori precedenti della band, Spirit of Eden e Laughing Stock, anche questo album solista vide la luce col contributo essenziale di un ensemble allargato di musicisti: Martin Ditcham alla batteria, il jazzista Chris Laurence al contrabbasso, Lawrence Pendrous al piano e harmonium, Dominic Miller e Robert McIntosh alle chitarre (insieme allo stesso Hollis) e poi una vasta sezione di fiati e ottoni, composta da Ian Dixon e Tim Holmes (clarinetti), i jazzisti Henry Lowther (tromba) e Andy Panayi (flauto), l’oboista Melinda Maxwell al corno inglese e due fagotti, suonati da Maggie Pollock e Julie Andrews, senza dimenticare l’armonica a bocca prestata dal bluesman inglese Mark Feltham, altro prolifico session musician (come Ditcham, Laurence e soprattutto McIntosh, già con Bob Dylan, e Dominic Miller, forse noto ai più per il suo lavoro con Sting). Anche in questo caso la caratteristica di essere un album per un ensemble esteso di musicisti piuttosto che per una band canonica contribuì a fare di Mark Hollis un disco impossibile da presentare live, in perfetta consonanza con le intenzioni ampiamente dichiarate dal suo autore: “There won’t be any gig, not even at home in the living room. This material isn’t suited to play live. And I choose for my family. Maybe that others are capable of doing it, but I can’t go on tour and be a good dad at the same time.” (si veda l’intervista citata poco sopra) D’altra parte, come fanno giustamente notare in questa brevissima recensione, Hollis refused to tour after its release, expressing the view that everything that he needed to say had already been said on this album. He was right.

Ad aprire il lavoro troviamo The Colour of Spring, una ballad piano-voce composta integralmente da Hollis e che riprende nel titolo il terzo album dei Talk Talk: emergendo da trenta secondi di un profondissimo silenzio, gli accordi del piano di Pendrous che la accompagnano creano un’atmosfera crescente ma sospesa (ottenuta con una serie di slash chords che portano al basso le quarte nel voicing dell’accordo), contribuendo a costruire un climax obliquo, instabile. Il bridge, una cascata di accordi enigmatici apparentemente senza risoluzione, costruiti ancora facendo ampio ricorso alla pratica degli slash chords, concorre a rendere ancora più diafana l’atmosfera del brano, misteriosa e sospesa, cui da par suo contribuisce anche il testo, un criptico rimuginare esistenziale cantato da Hollis con un filo di voce magnificamente rotta negli ultimi versi di ogni strofa (And yet I’ll gaze/ At the colour of spring/ Immerse in that one moment/ Left in love with everything). The Colour of Spring funziona un po’ come inno alla centralità della musica intesa come linguaggio universale che strappa il significato al silenzio (allo stesso modo in cui questo brano emerge elegantemente, in tutta la sua enigmaticità, proprio dall’assenza di suono). Watershed (composta a quattro mani da Hollis con Warne Livesey) introduce flebili elementi ritmici, espressi soprattutto nel contrabbasso di Laurence e nella batteria di Ditcham, mentre il cantato di Hollis prosegue accompagnato dai tappeti dei fiati: Watershed è una piccola sinfonia, un capolavoro di arrangiamento che a metà strada si avvolge su se stesso per lasciare spazio a un solo acidissimo della tromba di Lowther, creando un atmosfera quasi davisiana (non a caso Miles Davis era uno dei musicisti preferiti di Hollis). Proprio in questo passaggio, Watershed (così come l’intero album) palesa tutte le proprie ascendenze jazz, già palesi anche nella scelta degli strumentisti operata da Hollis (musicisti come Laurence, Ditcham e Lowther, tutti in grande evidenza in questo brano). La successiva Inside Looking Out è la seconda composizione del solo Hollis inclusa nell’album, e al pari di The Colour of Spring è una ballad essenzialmente pianistica. Qui però Pendrous è accompagnato prima dal contrabbasso di Laurence e poi dalla sei corde suonata dallo stesso Hollis, che si ritaglia un delicato strumming all’inizio della parte strumentale, un passaggio di apertura e improvvisazione sul quale si affacciano come timidamente i vari strumentisti per poi lasciare lo spazio maggiore proprio al piano, preludio al rientro della voce. Il testo è ancora volutamente oscuro e vagamente intessuto di sotto testi religiosi, con una melodia vocale che sembra riprendere scopertamente molte le melodie di Spirit of Eden o Laughing Stock. Il finale ha una profondità elegiaca perfettamente sottolineata dagli ottoni, e il brano sembra cadere lentamente verso il basso per sfociare dentro The Gift (composta di nuovo dal duo Hollis/Livesey). The Gift è un episodio maggiormente orientato alla ritmica, con la bellissima linea del contrabbasso di Laurence che scivola nel drumming scandito di Ditcham, costruendo un groove assolutamente chiaro e definito. Il resto lo fa la voce di Hollis, vagamente salmodiante, a metà tra la pura invocazione e la melodia, e il tessuto sparso e crepitante degli interventi di ottoni e legni. The Gift è un up-tempo multiforme pur nella sua apparente staticità e per questo doppiamente affascinante, oltreché il primo brano del lotto nel quale la pulsazione ritmica, da puramente sotterranea, si fa esplicita, più prettamente fisica (un percorso, quello compiuto dalla sezione ritmica, che la porta allo scoperto lentamente lungo le prime quattro tracce dell’album per poi manifestarsi compiutamente proprio in questo episodio).

The Gift prelude a A Life (1895-1915), composizione lunga (oltre gli otto minuti) che costituisce verosimilmente il fulcro ideale dell’intero lavoro. A Life (1895-1915) è forse la forma più autentica di sinfonia che si può ascoltare nell’album: il brano è ispirato alla vita del poeta britannico Roland Leighton, nato il 27 marzo del 1895 e morto il 23 dicembre del 1915 durante la Prima Guerra Mondiale, nella quale era soldato al fronte. Leighton divenne famoso soprattutto grazie al libro Testament of Youth scritto dalla fidanzata Vera Brittain, celebre attivista pacifista e socialista inglese con la quale come ovvio Leighton intrattenne una fitta corrispondenza dal fronte. Nelle parole che Hollis, usa per descrivere il brano, “That was someone born before the turn of the century and dying within one year of the First World War at a young age. It was based on Vera Brittain’s boyfriend. It’s the expectation that must have been in existence at the turn of the century, the patriotism that must’ve existed at the start of the war and the disillusionment that must’ve come immediately afterwards. It’s the very severe mood swings that fascinated me.” La sinfonia di A Life (1895-1915) inizia con una intro per legni e fiati alla quale si accodano il contrabbasso e il pianoforte, sui quali si adagia infine la voce di Hollis; il brano evolve in un affascinante segmento centrale animato da un coro vocale, che si spenge in una nota profondissima del contrabbasso di Laurence. Le poesie che Leigthon inviava a Vera Brittain dal fronte nelle sue lettere hanno costituito un ovvio riferimento per il profondo ermetismo del brano, che descrive gli ultimi momenti della vita del giovane poeta (And here I lay, lay, oh Lord/ And here I lay, lay, now). La coda strumentale del pezzo prende il via da un breve intermezzo dei fiati, che introducono un nuovo complesso pattern ritmico gestito ancora da Laurence e Ditcham. Quando ogni suono si spenge, emerge la chitarra di Westward Bound, composta da Hollis a quattro mani con Dominic Miller: un madrigale per chitarre sul quale Hollis canta a mezza bocca un testo che racconta una storia di speranza e sofferenza umana (Born on an April tide/ Glowing in the wonder of our first child/ There my promise is/ A spur/ A rein […] The world upon my back/ The pressure upon this earth/ Drought’s heir/ Sown my money), seguendo una melodia per metà eterea e per metà terrena, veicolo di pura emozione. Westward Bound è tanto sommessa e delicata quanto emotivamente dirompente, e il suo spengersi dentro un’altra piccola sinfonia, The Daily Planet, la fa risaltare ulteriormente nella sua cristallina e fragile semplicità. The Daily Planet (Hollis/Livesey) prende le mosse su quella che apparentemente è un’introduzione un po’ sgangherata dei fiati, alla quale presto si accompagna una sezione ritmica densa e precisa, che posiziona l’esecuzione a metà strada tra la divagazione jazzistica e il rispetto di una partitura classica (soprattutto per il ruolo preminente svolto dai fagotti). Al centro del brano trova spazio un solo acidissimo dell’armonica a bocca di Mark Feltham, che taglia a metà la divagazione strumentale dei musicisti: The Daily Planet è una sorta di strana marcia, un brano forse più canonico dal punto di vista melodico ma che pure ha i caratteri originali di un pezzo di musica sostanzialmente improvvisata, caratterizzata da un andamento erratico ed evocativo. La conclusiva A New Jerusalem ha un tono più chiaramente elegiaco, evidente soprattutto nella sua introduzione pianistica, per poi lasciar spazio a un duetto tra Pendrous e le chitarre acustiche. Fa uno strano effetto pensare che si tratti dell’ultima registrazione vocale di Hollis, di fatto una traccia che chiude un’intera carriera e non soltanto un album: And I’m home again/ Run along, my child/ For the water’s blood/ And so the sea/ Summer unwinds/ But no longer kind. Il cantato sul ritornello (Heaven, burn me/ Should I swear to fight/ Once more/ D’you see? ) lascia assaporare brandelli di una splendida melodia, una di quelle che potrebbero durare all’infinito senza mai venire a noia, sostenuta da un tappeto sonoro clamorosamente evocativo intessuto da piano, contrabbasso e dall’intera sezione di fiati, sul quale il brano di fatto va a spengersi. A New Jerusalem si incammina lentamente verso un profondissimo silenzio, che occupa l’ultimo minuto e mezzo della traccia, come a rappresentare simbolicamente un’uscita di scena, la chiusura di un cerchio, l’avvenuta ricucitura di quello strappo nel tessuto del silenzio dal quale questi poco meno di cinquanta minuti di musica sono delicatamente fuggiti. Entrare dentro questo silenzio e ascoltarlo è un po’ come sentire una pioggia calare fino spengersi, e restare con l’odore della terra e dell’asfalto bagnati che invadono i sensi: il disco riparte, e da un nuovo silenzio riemergono gli strani accordi di The Colour of Spring, cosicché il viaggio possa ogni volta ricominciare.

Da qualche parte avevo già scritto che la prima tentazione che ti viene quando ascolti questo disco è quella di alzare il volume: ti sembra che non ci sia sufficiente volume, ma è appunto soltanto una sensazione, perché in realtà c’è tutto il volume e tutto il suono che servono, forse addirittura un suono assai più enorme e maestoso che in tantissimi altri album. È che questo disco, con le sue otto tracce un po’ misteriose, è a tutti gli effetti fuori dal tempo, quasi quanto il suo geniale autore: Mark Hollis ha sempre saputo precorrere i tempi. Era così quando componeva un pop raffinato insieme acustico ed elettronico, romantico e inquieto coi suoi Talk Talk, era così quando tirava fuori dal cilindro il post-rock prima ancora che esso esistesse nella testa dei suoi futuri, principali interpreti con Spirit of Eden, o quando ibridava quel suono con quello di un’orchestra jazz, conferendogli un respiro e un movimento ignoti alla maggior parte della musica pop occidentale, con Laughing Stock; ed è stato così, infine, anche quando quella musica ha saputo denudarla, ridurla all’osso, al suo più intimo e puro nucleo emozionale e sonoro con questo ultimo, omonimo album. Mark Hollis è un disco di post-rock e di jazz spogliati, offerti nudi in tutta la loro fragilità alla plausibile intimità che si crea tra i musicisti e i loro ascoltatori: è di nuovo un battito d’ali, un brandello di grazia strappato al silenzio, dal quale (come detto) emerge e nel quale precipita nuovamente al termine dell’ascolto. Non è un silenzio metaforico, è proprio lo spazio fisico tra ogni suono, quello che riempie ogni nostro momento: quello che non è lì in quel momento, l’assenza di qualcosa. È quasi paradossale (ma a ben pensarci non lo è davvero) che un disco così fisico, nel quale gli strumenti respirano assieme ai musicisti e si può distintamente cogliere il legno del contrabbasso o quello delle chitarre acustiche, sia insieme anche tanto metafisico, evocativo: forse però non poteva essere altrimenti, e anche questa era già una necessità, soprattutto considerato quanto lontano Hollis fosse riuscito a spingersi nella propria ricerca musicale. Il modo nel quale la trama di questi brani si contrae e si espande, con gli strumenti che spesso entrano in punta di piedi dentro il tessuto sonoro, facendo timidamente capolino, e altre volte si prendono tutta la scena con interventi solisti di una potenza rara (penso alla tromba in Watershed), ha più l’incedere della composizione poetica che quello della forma-canzone, e infatti gli otto brani sono tutti gusci di canzoni dilatate, musica per anime in tumulto, che sa scavare in profondità dentro ciascuno di noi. In fondo Hollis era soprattutto questo, un poeta: a me piace sempre pensarlo come un artista che ha saputo cantare l’assenza come pochi altri, per il quale il silenzio era da intendersi come una parte fondamentale del discorso musicale, e in questo molto simile a un musicista totalmente differente ma, al suo pari, altrettanto definibile come un poeta dei silenzi, il compositore e pianista jazz Paul Bley. Il paragone non è poi troppo lontano dal vero, considerando che non è un mistero quanto il jazz affascinasse Mark Hollis: l’amore per Coltrane, quello (dichiarato) per i dischi di Miles Davis e in particolare quelli orchestrali, realizzati con il contributo di Gil Evans, ma anche i Can di Tago Mago; un vastissimo mondo musicale che fluisce dentro quest’ultimo album del musicista inglese, filtrato attraverso un’ottica peculiare che sposa l’apparente disperazione lirica, espressa dai versi enigmatici e oscuri che attraversano queste tracce, con uno strisciante senso di sottile beatitudine, di pacificazione e catarsi che invece innerva le composizioni. Questa è, in fondo, una musica per catarsi, per anime inquiete che cercano riparo, un faro nella notte profonda che getta la sua luce tutto attorno a indicare forse una direzione: una musica per spiriti erranti, che tiene al caldo il cuore quando fuori cala il gelo. La musica di Mark Hollis è stata, di fatto, un autentico dono: la sua esperienza di ricerca, il senso della sua intera vita, dovrebbero rappresentare un faro per molti musicisti contemporanei. Sarebbe l’ora, a quattro anni dalla prematura scomparsa e a 25 dalla pubblicazione di questo ultimo lavoro prima del lungo, profondissimo silenzio nel quale aveva scelto di ritirarsi, che Mark Hollis trovasse un seguito autentico nelle nuove generazioni di ascoltatori e, soprattutto, di musicisti. Non che un seguito non ce l’abbia già, chiaro: ma il rischio, in un’epoca di sovraesposizioni mediatiche elette a stile di vita e paradigma artistico, che il suo lungo silenzio, così controcorrente ma così coerente con la sua visione della musica e della vita, lo possa dolosamente allontanare dall’attenzione di chi alla stessa musica si approccia in cerca magari di una koinè, di un linguaggio attraverso il quale esprimere agli altri il mistero di se stessi, è un rischio che esiste ed è concreto. E sarebbe un tremendo, terribile peccato.


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