High-Speed Funk: Turbo (Cory Wong & Dirty Loops, 2021)

Come ormai consuetudine, ogni mia recensione di un lavoro del buon Cory Wong inizia lodandone la prolificità: quest’anno il nostro ha un po’ rallentato rispetto al 2020, ma comunque i prodotti discografici partoriti dall’ingegno e dall’iniziativa del chitarrista e compositore di Minneapolis ammontano fin qui a quattro, ovvero il fulminante LP Cory and The Wongnotes, pubblicato a inizio anno (ne scrivevamo qui), l’album collaborativo The Golden Hour realizzato col sassofonista smooth-jazz Dave Koz, il live The Paisley Park Session, pubblicato a fine Ottobre, e Turbo, frutto dell’incontro con i Dirty Loops, trio svedese di pop rock-fusion attivo dal 2008 forse meglio noto (almeno nel microcosmo dei bassisti) per annoverare tra le sue file la tecnica formidabile di Henrik Linder (tra le altre cose, endorser di EBS). Turbo, pubblicato lo scorso 3 settembre e accompagnato da una campagna di crowdfunding su Qrates volta a coprire le spese di stampa del vinile, tiene fede al nome e assomiglia a un blitz: un concentrato ad alta velocità di tanto, robustissimo funk, tentazioni fusion, delicati episodi di bossa-nova immalinconita e molte strizzate d’occhio al pop, reinventato con un gusto e un acume che hanno pochi eguali nel panorama musicale odierno. L’assunto di base è semplice: sposare l’inventiva chitarristica di Wong ad una sezione ritmica di potenza e ferocia inaudite (l’asse Linder al basso- Aron Mellergård alla batteria), aggiungere il piano (e la voce) di Jonah Nilsson, e condire il tutto con i fiati di una diretta emanazione degli Hornheads, ovvero Steve Strand (tromba e flicorno soprano), Jon Lampley (tromba e susafono), Kenni Holmen (sax alto, sax soprano e clarinetto) e Grace Kelly (sax alto e baritono) capitanati al solito da Michael Nelson (trombone). L’effetto che si ottiene è quello di un The Striped Album ancora più adrenalinico, oscillante tra ritmiche serrate che danno un tocco da urban-funk, fiati che colorano tutto con interventi che vanno dall’orchestrale al free-jazz e il falsetto di Nilsson che flirta col pop e assume spesso toni (e modi) à la Michael Jackson: il Re è morto, viva il Re, verrebbe da dire, e non a caso l’omaggio a Jackson è ora palese (la pazzesca riscrittura di Thriller), ora nascosto nelle pieghe del racconto (a esempio nell’iniziale Follow The Light).
Apre le danze proprio
Follow The Light, un ibrido pop-funk tiratissimo, aperto da un pianoforte sognante immediatamente travolto da un meccanismo ritmico complicatissimo, imperniato sui virtuosismi del basso sincopato di un Linder al solito mostruoso (c’è di tutto, dallo slap al tapping all’effettistica usata in modo a dir poco originale): l’inciso, memorabile e sottolineato dalle risposte dei fiati in background, si stempera in un passaggio strumentale attorno ai 2 minuti e mezzo che è una chiara citazione di quella Thriller che riascolteremo, meravigliosamente re-immaginata, poco più avanti, e prelude a un solo di Linder al basso che, se mi passate il termine inglese, potrei definire solo come mesmerizing (scusate, lo so, lo so: le parole sono importanti, e mentre mi becco un metaforico schiaffone da Nanni Moretti a bordo piscina vi dico di ascoltare questo solo e l’intera performance di Linder su questo brano e vi assicuro che l’unica parola che verrà in mente anche a voi, abbastanza evocativa da concentrare l’assurda enormità di quello che sentirete, sarà proprio “mesmerizing”; l’espressione di Grace Kelly durante questo solo, che potrete ammirare nel video in fondo alla pagina, vi toglierà ogni dubbio ed è probabilmente il miglior commento possibile a riguardo). La title-track Turbo è un concentrato di funk tipicamente Wong-oriented: un background ritmico devastante sul quale i fiati possono dipingere l’unisono del tema, e dal quale si staccano prima un formidabile solo del sax di Holmen e poi una sezione batteria-chitarra soli, cui presto si aggiunge un torrenziale solo di Linder che riaccompagna il brano al tema iniziale, quattro minuti di potenza assoluta. A rompere il ritmo, sin qui assolutamente forsennato, arriva la bossa lieve e malinconia di Ring of Saturn: onde di marea delle tastiere lasciano spazio alla ritmica stoppata della chitarra di Wong, cui si aggiungono Linder e Mellergård. Lo stesso Wong si occupa di esporre il tema del brano, lasciando spazio a vari interventi solisti che vanno dal pianismo notturno e romantico di Nilsson al clarinetto di Holmen. Ring of Saturn è un manifesto abbacinante dell’assoluta modernità del concetto di fusion: inglobando elementi che vanno dalla bossa nova al jazz, dal funk al progressive, Wong e sodali creano un ambiente sonoro delicato, ricchissimo di sfumature affascinanti, un passaggio distensivo e riflessivo che è anche il miglior biglietto da visita per una formazione che fa della classe assoluta la cifra caratteristica della propria proposta musicale. Hardtop torna al classico funk di Wong (ebbene sì, è già un classico): sezione ritmica che marcia implacabile, svisate della Fender Stratocaster signature di Wong, risposte puntualissime dei fiati in background. Wong e Linder si rincorrono su un folle e divertente ottovolante funky dal quale verrebbe voglia di non scendere mai, soprattutto quando il tema scende di tonalità per sfociare nell’inciso, e infine Wong si lancia in quello che potremmo definire un suo raro ma stellare solo di chitarra, sporcato dalle distorsioni nel timbro ma di esattezza cristallina nel suo incastro magico con il crescendo del pezzo. Hardtop si spegne in un unisono dei fiati e lascia spazio ad un altro strumentale, Hästråtta, costruito secondo lo stesso procedimento: ritmica devastante, fiati che contrappuntano efficacemente e tema che si apre in una delicata sinfonia orchestrale. Nel mezzo c’è spazio per un duetto batteria/basso al quale si aggiunge la chitarra di Wong, duplicata in stereofonia, che spedisce un turbinio di note appuntite come cristalli dentro le orecchie dell’ascoltatore, una specie di luminosa esplosione che fa da tappeto introduttivo per il solo del trombone di Michael Nelson. Qui quello che colpisce è proprio il lavoro sulla scrittura dei fiati, assoluti protagonisti della scena: una successione di unisoni e obbligati da cui si staccano prima il trombone e poi la tromba di Jon Lampley. Quando Hästråtta finisce, inizia un passaggio che resta impresso a fuoco nella memoria, ovvero la già preannunciata riscrittura di Thriller, probabilmente il brano più noto di Michael Jackson: e uno potrebbe dire, vabbè, che ci sarà mai da aggiungere a un capolavoro? Ecco, se siete tra questi, state pronti a stropicciarvi le orecchie più e più volte. Quello che succede in questi 5 minuti scarsi è infatti, nell’ordine: Mellergård che accenta pesantemente la sua linea di batteria, Linder che stravolge il ben noto “basso continuo” che faceva da sfondo al pezzo originale, i fiati che contrappuntano meravigliosamente questo groove assurdamente travolgente, Wong che aggiunge le sue coloriture e Nilsson che ci mette sopra una buona quintalata di Jackson-vibes (d’altra parte il ragazzo non è nuovo a questo genere di frequentazioni: il suo recente album solista, Now or Never, contiene infatti una riscrittura di un altro classico del re del pop, Bad). Il risultato è un brano che è Thriller, senza dubbio, ma è anche (e forse soprattutto) qualcos’altro: una formidabile riscrittura, arricchita da alcuni passaggi strumentali evocativi (affidati soprattutto all’affiatatissima sezione guidata da Nelson), una di quelle cose che andrebbero fatte ascoltare nelle scuole quando si parla di “plasmare” la musica, suonarla portandoci dentro sempre qualcosa di nuovo, di diverso, di personale. È indubbio che in questa Thriller ci sia l’omaggio sincero per un testo musicale che si ritiene un classico inarrivabile, eppure allo stesso tempo c’è la voglia di scomporlo, ricomporlo, arricchirlo, metterci del proprio, (s)travolgerlo e reinventarlo. In questi cinque minuti c’è, secondo me, l’idea stessa che ha spinto Cory Wong e i Dirty Loops a realizzare insieme il progetto di Turbo, l’essenza stessa del cercare nuove strade e un concetto di ricerca musicale che trovo affascinante e decisamente affine a quello che, in piccolo, è il mio pensiero a proposito (come ascoltatore, prima di tutto, ma anche come musicista, per quel che vale). Il basso di Linder apre l’ultima traccia dell’album, ZAP, con una linea ritmica fatta di pieni e vuoti: i fiati disegnano tema, melodie e unisoni trascinanti, come attaccando il pezzo da ogni fronte. Anche ZAP è di fatto un blitz sonico e un manifesto di libertà compositiva ed esecutiva, nel quale gli unisoni sferraglianti fanno da sfondo a interventi solisti folgoranti dei fiati capitanati da Nelson, e si alternano a un inciso romanticamente melodioso: il crescendo sonoro ed emotivo si esaurisce d’improvviso su un ultimo acuto che chiude l’album.
Turbo non fa che confermare l’idea di un Cory Wong che è ben più che un chitarrista fenomenale, o un compositore di gran gusto, mezzi sconfinati e grandissima classe: è anche, forse soprattutto, un artista capace di “creare” l’occasione, capace di scegliere il mix giusto sia a livello di generi/contaminazioni che, in particolare, di musicisti, riuscendo a garantire a tutti quanti la possibilità di esprimersi al meglio delle proprie possibilità. Non è un caso che una bella fetta delle produzioni di Wong siano improntate alla collaborazione: a volte questa si esplica nel singolo brano (pensiamo ai numerosi artisti coinvolti in The Striped Album e negli altri album di Wong, o ai frequenti lavori a quattro mani realizzati con Tom Misch) e altre volte invece è programmatica della stesura di un intero lavoro, come accaduto già due volte quest’anno, con Dave Koz prima e i Dirty Loops poi. Il punto è che, a differenza dei tanti guitar heroes che affollano il web e il mondo della musica, Wong sembra essere particolarmente bravo (e lungimirante) nel ritagliarsi spazio dentro a un percorso e un contesto vissuto sempre come collettivo: conscio di come la musica non sia mai affare solista (non in senso stretto), il buon Cory sa farsi catalizzatore di un processo creativo che coinvolge sempre più di un centro. Stavolta, attorno alla sua scrittura e al lavorio ritmico inesausto della sua fantastica mano destra, gravitano i fiati guidati da Michael Nelson e il formidabile trio LinderMellergårdNilsson, in quello che (se non facesse ridere usare un termine del genere, me ne rendo conto) rappresenta una potente applicazione del concetto di collettivizzazione: ognuno porta dentro qualcosa di sé, mette in compartecipazione, aggiunge un mattoncino. La musica contenuta in Turbo non sarebbe la stessa senza l’interplay dei fiati, senza il fraseggio di Holmen (che si tratti di sax o di clarinetto), senza i bassi strepitosi del funambolo Linder (ricordate questa parola, mesmerizing), senza il falsetto black di Nilsson (alla faccia dei nordici ghiaccioli) e ovviamente senza la chitarra inconfondibile di Wong, funk-machine in carne ossa e demiurgo giocherellone di questa gioiosa macchina da guerra: un direttore d’orchestra a tutti gli effetti e, innegabilmente, un artista dotato di una Visione, virtù che pertiene solo ai grandissimi.

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