Il jazz come ritorno e Kinfolk 2: See the Birds (Nate Smith, 2021)

Nate Smith è probabilmente uno dei batteristi/compositori più eclettici e importanti della sua generazione, capace di svariare tra i generi con una naturalezza addirittura disarmante, mantenendo costante il livello della qualità della propria proposta musicale: a quattro anni di distanza da quell’album di jazz quantomeno sperimentale, obliquo e inclassificabile che era KINFOLK: Postcards from Everywhere, dopo aver suonato nel frattempo un po’ con tutti i migliori attualmente in circolazione (da Cory Wong a Jon Batiste, dai Vulfpeck ai Fearless Flyers, solo per menzionare alcuni di quelli di cui abbiamo parlato anche qua sopra), dopo un altro album (Pocket Change, del 2018) e l’EP Light And Shadow (pubblicato lo scorso anno, ne scrivevamo qui), giunge il secondo capitolo di quella che, nelle intenzioni di Smith, dovrebbe essere una trilogia, Kinfolk 2: See the Birds. Ancora una volta, il primo amore dell’artista proveniente da Chesapeake, Virginia, è il jazz: niente di sorprendente per un musicista che ha suonato con nomi del calibro di Dave Holland, Randy Brecker e Chris Potter (tra gli altri), mi direte voi; eppure quello che entusiasma nel lavoro di Smith, in particolare da un punto di vista compositivo, è l’innata capacità di ibridare il linguaggio del jazz, la sua forma, con tutta la musica che il batterista ha assorbito durante la propria vita e la propria carriera. Non è un mistero come la serie di album (chiamiamola così, dato che si tratta di un lavoro ancora in fieri) ribattezzata Kinfolk prenda largamente ispirazione dagli ascolti e dall’atmosfera artistica esperita da Smith durante la giovane età, e qua e là il riferimento autobiografico/diaristico risulta abbastanza evidente (almeno scorrendo la tracklist di questo Kinfolk 2): d’altro canto attendersi un album meno eclettico di questo avrebbe significato, nei riguardi del suo autore, sconfessare un passato di ascolti/passioni/partecipazioni musicali assolutamente variegato, e non c’è certo questo nei progetti di Nate Smith. Kinfolk 2: See the Birds riesce nell’impresa di ibridare il jazz con R’n’B, soul, funk, rap e persino col rock dei Living Colour, riflettendo una matrice di ispirazioni e riferimenti artistici davvero sconfinata, che abbraccia un arco che si allunga da Prince a Michael Jackson, dall’Hip Hop fino a Sting e, appunto, alla leggendaria band di Vernon Reid: undici tracce che sono una sintesi profonda e potentissima di un intero mondo, un multiverso che poi altro non è che quello che Smith si è creato nella propria “adolescenza” musicale, se così vogliamo chiamarla. Un ritorno a casa: è forte, come già accennavo, la sensazione di ascoltare una biografia in musica, però un tipo particolare di biografia, una biografia nella quale ogni momento è ancora vivo e vegeto, nella quale il passato è a tutti gli effetti nient’altro che la tela sulla quale il musicista crea un presente (e un futuro) adoperando i colori raccolti dalla tavolozza dei ricordi.
L’opening track
Altitude sposa il drumming vibrante di Smith (anche impegnato alle tastiere) con la vocalità eterea (e priva di parole, e anche per questo estremamente suggestiva) di Michael Mayo: ci si trova così di fronte a un ritornello che non si dimentica, per quanto la voce non segua un testo, qualcosa che non si ascolta spesso nella musica contemporanea, ma tenda a farsi puro suono tra i suoni, in un lungo interplay con le tastiere, il basso di Fima Ephron e soprattutto il vibrafono di Joel Ross. Sulla scorta del vocalese di Micheal Mayo, un po’ Bobby McFerrin e molto orientato verso il be-bop, si entra dentro la splendida Square Wheel, dove alle strofe rappate da Kokayi si oppone lo stesso Mayo nei ritornelli, stavolta vocalizzando parole di senso compiuto: la batteria di Smith scuote l’ossatura ritmica del brano, sottolinea lo shift verso il fantastico bridge che lo taglia a metà e sposta all’improvviso la partitura sul terreno di un infuocato solo di Jaleel Shaw al sassofono. Dentro le undici tracce di Kinfolk 2: See the Birds, a tutti i livelli, c’è molto più di una batteria che accompagna: c’è un drumming che fa estesamente parte del tracciato armonico dei brani, che contribuisce non solo ad accompagnare ma soprattutto ad indirizzare, confondere, mescolare. Il freestyle di Band Room Freestyle (ancora con Kokayi alla voce) è indicativo di questa tendenza a costruire sulla struttura ritmica: il brano, apertamente rap, è imperniato solo ed esclusivamente su elementi ritmici, forniti non solo dalla batteria di Smith, ma anche dalle tastiere e dagli altri strumenti, e rimanda (fin dall’iniziale campanella) a un ricordo di gioventù dell’artista, trasformato in un passaggio di “instant music”: in poco più di un minuto e mezzo, Band Room Freestyle compendia efficacemente un intero modo di intendere la composizione. Street Lamp inizia lieve, il sassofono impegnato a duettare con gli accordi snocciolati dalle tastiere, ma come chiaro a chiunque conosca un po’ Smith (e abbia ascoltato attentamente le prime tre tracce) contiene molto di più al suo interno: c’è un solo sognante della chitarra di Brad Allen Williams, che sconfina volentieri in territori à la Pat Metheny per poi inacidirsi inaspettatamente e lasciar spazio alla riproposizione del tema; c’è un intervento solista pieno di piccoli cluster di note suonato da Jon Cowherd al piano, sostenuto quasi unicamente dal basso di Ephron e dalla ritmica inesauribile dello stesso Smith, e infine ancora il tema. Nella sua struttura, Street Lamp richiama apertamente uno standard, con la sua alternanza tra l’esposizione del tema della composizione e la precisa successione degli interventi dei solisti. La seguente Don’t Let Me Get Away pesca invece nell’R’n’B e nel soul cinematico, impreziosito dalla vocalità affascinante di Stokley Williams, un piccolo gioiello pop con un ricco substrato di archi sul quale la voce di Stokley può dondolarsi e concedersi anche qualche passaggio puramente vocalico: mentre il sax inizia a frequentare atmosfere in odore di Branford Marsalis (che diventeranno palesi più avanti), Brad Allen Williams snocciola un bell’assolo di chitarra in mezzo al pezzo, che si spenge con un piccolo solo scat della voce direttamente dentro il romanticismo notturno di Collision. Le onde di marea del piano e del basso divengono la tela sulla quale il violino di Regina Carter dipinge un dialogo affascinante col sax di Jaleel Shaw: mentre Nate Smith si ritira sullo sfondo del brano, impegnato a imprimervi la forza necessaria perché l’onda si gonfi e si autoalimenti, sassofono e violino seguitano a rivaleggiare per dipingere la linea melodica più indimenticabile. Nel suo microcosmo di suoni, timbri e variazioni armoniche, Collision è una composizione che non ha niente da invidiare a nessun’altra ascoltata in questo 2021: in essa assistiamo all’edificazione di una vera e propria stanza, un ambiente sonoro autosufficiente e affascinante, ricchissimo, elegante e delicato. Particolarmente impressionante la sezione centrale del brano, nella quale Smith scioglie la briglia dei musicisti, lasciando loro spazio: la delicata alternanza del dialogo di violino e sassofono diventa un pieno sonoro quasi intollerabile, che bruscamente viene ricondotto alla sua forma originale dal ritorno del piano e del basso sul giro iniziale. L’interludio di Meditation: Prelude crea una tensione sonora sfruttando unicamente le rullate di Smith sui tamburi e un sottofondo di pad, e lascia spazio a Rambo: The Vigilante, una specie di obliquo matrimonio tra il drumming funky di Smith e le metalliche soluzioni ritmico/armoniche impartite dalla chitarra di Vernon Reid. Qui è particolarmente straniante la ritmica zoppa e dispari del tema, fatto di pause e ripartenze e violentato dalle distorsioni dell’elettrica di Reid, e l’ingresso di un solo quasi free di Shaw al sassofono sul tempo vibrante tirato da Smith porta il brano a sconfinare in territori che stanno al crocevia tra metal, jazz e funk, una specie di bizzarro ibrido di percorsi musicali che chiunque considererebbe antitetici e che invece, magneticamente (e magmaticamente), si tengono alla perfezione lungo tutti i quasi cinque minuti del brano. Rambo: The Vigilante è l’esempio plastico della capacità di Smith di tenere insieme le sue molteplici ispirazioni: il funk suonato a velocità smodata, l’hard-rock dei Living Colour, persino il free-jazz, concentrato nel lavoro di Shaw ai fiati. Lo stesso unisono di piano, batteria, sassofono e basso che tagliava a metà Rambo: The Vigilante apre a I Burn For You: come già accennato, Shaw si “marsalisizza” in questa rilettura di un classico di Sting, affidata alla voce magnetica di Amma Whatt e che sembra uscita fuori direttamente dal periodo delle tartarughe blu e di Bring On The Night. L’esecuzione della band di Smith è tanto vibrante e sentita da essere migliore di tutte quelle dello stesso Sting che si possano reperire online: il basso di Ephron è esatto, pesato, senza nessuna sbavatura né svolazzo, e cadenza efficacemente sia l’arpeggio della chitarra di Williams che i contrappunti del sassofono di Shaw, che si ritaglia un breve solo enigmatico sulla parte centrale dell’esecuzione, prima dell’impennata conclusiva che chiude in crescendo un brano la cui perfezione formale (di scrittura, interpretazione, esecuzione) è seconda solo al trasporto emotivo che lascia trasparire da ogni nota. Kinfolk 2 torna ancora all’R’n’B nella scintillante titletrack, See the Birds, con la voce di Micheal Mayo che duetta di nuovo col vibrafono di Joel Ross: black music alla sua massima espressione, con il gusto dello sperimentale e dell’inatteso, incarnato alla perfezione nel solo di Ross. La conclusiva Fly (For Mike) sposa il jazz con il tema, ricorrente in Kinfolk 2, della memoria: il brano, dedicato al padre di Smith scomparso nel 2015, incede come uno standard di jazz classico, accompagnato dalla voce meravigliosa di Brittany Howard, e nella sua parte strumentale si ritagliano spazio per un solo in successione la chitarra di Brad Allen Williams, che produce un’affascinante cascata di note, il sassofono di Jaleel Shaw, che risponde con un fraseggio intriso di sognante malinconia, e il piano di Jon Cowherd, protagonista di un episodio che sposa le dissonanze tipiche del jazz con un romanticismo quasi da musica classica. Il finale è affidato ancora alla voce senza tempo della Howard, che rimanda alla mente un centinaio di anni di grandi classici del jazz cantato, omaggiati e al tempo stesso reinventati. “Every time I fly, I think of my late father, to whom this song is dedicated,” spiega lo stesso Smith. “When I wrote it [si riferisce a questa canzone, ndr], I wanted the music to evoke a feeling of freedom from suffering. I’m so grateful that Brittany wrote such gorgeous lyrics, and sang them so beautifully. It’s my hope that this song will bring comfort to anyone who has experienced loss, along with the reassurance that their loved ones are no longer suffering.”
Basterebbero i quattro minuti esatti dell’ultimo brano per dare la misura del valore di
Kinfolk 2: See the Birds. Sul fatto che Smith sia oggi uno dei batteristi più importanti (e più grandi) del nostro tempo, chi scrive nutre da sempre pochissimi dubbi (forse sarebbe il caso di dire nessuno): ma la grandezza dell’artista di Cheesapeake è ancora più manifesta se si va a guardare il livello della composizione di queste undici tracce, che scorrono come un flusso meravigliosamente misurato, sposando sperimentazione e lirismo con grazia ed eleganza assolute. Nate Smith si è circondato di musicisti in evidente stato di grazia (l’apporto di Ephron al basso, Cowherd al piano, Shaw al sax e Williams alla chitarra elettrica è manifestamente straordinario) e non ha dovuto far altro che governare e indirizzare il ricchissimo magma sonoro che innerva Kinfolk 2: See the Birds col suo stile tagliente e efficacissimo dietro i tamburi: l’album è un saggio perfetto dell’equilibrio tra componente ritmica e ricchezza armonica, intuizioni melodiche e cambiamenti improvvisi di sound, atmosfera, ambientazione, che rimanda alla mente la semplicità e la voglia di sperimentazione con la quale, ad esempio, un Art Blakey governava il proprio ensemble nella profonda reinvenzione del jazz della quale seppe rendersi protagonista (e non è un caso che Nate Smith citi proprio l’ascolto di un album di Blakey e dei suoi Jazz Messengers, Album of the Year, avvenuto nel corso dei suoi sedici anni, come la scintilla che ne ha fatto avvampare l’amore per il jazz, tracciandone irrimediabilmente la strada). Mi piace sempre pensare, magari anche un po’ ingenuamente, che la parola Kinfolk venga da una sintesi di kinetic e folk: non so se questa idea abbia un qualche senso (quasi sicuramente no), ma mi piace proprio l’idea di una parola che tenga insieme l’incisività “fisica” di questa musica, la sua pregnanza che si dispiega nello spazio e nel tempo (kinetic), e il suo essere allo stesso tempo ancorata alla tradizione (folk), quasi come un nóstos, una sua celebrazione e contemporanea, esuberante reinvenzione. Kinfolk 2: See the Birds, in fondo, racconta proprio di questo ritorno a casa, che è poi qualcosa di più che tornare a uno spazio immanente, tangibile; è piuttosto il ritorno verso uno spazio che si moltiplica, mutevole perché vivo (e per ogni cosa viva il cambiamento è necessario), uno spazio nel quale tutti i fili si tendono verso un centro pulsante, cui giungono e dal quale, allo stesso tempo, dipartono continuamente. Il motore inesauribile che origina il moto di ciascun essere umano, definendone spesso le coordinate, lo spartito sul quale tenterà i propri rhythm changes, le proprie digressioni, improvvisando per la maggior parte del tempo: Kinfolk 2 è musica che va ben oltre le categorie, impossibile da rinchiudere dentro un recinto, autenticamente jazz soprattutto perché autenticamente libera e il jazz è libertà, e ha a che fare molto poco con quello che pensi di te stesso e molto di più con quello che trovi dentro di te. La pulsazione ritmica inesausta che Nate Smith imprime alle sue undici tracce è il battito del suo stesso cuore, e i colori della sua anima sono tutti quelli che si assaporano lungo questi tre quarti d’ora, e molti di più: sospeso tra il romanticismo senza tempo dei fraseggi pianistici di Cowherd, il sostegno ritmico inventivo e inarrestabile di Ephron e Williams e le cascate di note che sgorgano dal sassofono di Shaw, i “suoi” Jazz Messengers, c’è un percorso dell’anima che tiene insieme passato e futuro, insegna una lezione profondissima sulla luce e l’oscurità, tratteggia speranze laddove prima c’era solo dolore. Se preferite, Kinfolk 2 è anche musica integralmente cinematica, ricordo che si costruisce, memoria nel suo farsi, digressione e trasformazione che spostano l’orizzonte un passo più in là: You will find your meaning out in the world, un lavoro di intensità e potenza rare, evocativo come poche altre cose che avrete l’occasione di ascoltare quest’anno.

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