Il Jazz come luogo d’incontro: Skyline (Gonzalo Rubalcaba, Ron Carter & Jack DeJohnette, 2021)

Per chiudere il cerchio dei tre album premiati ai recenti Grammy Awards e dei quali avrei voluto parlarvi (più o meno) brevemente, oggi è la volta di Skyline, album dato alle stampe lo scorso 21 settembre dal pianista cubano Gonzalo Rubalcaba in trio con Jack DeJohnette (vecchia conoscenza di questo blog) e con il Maestro Ron Carter. Primo di una serie in fieri di tre lavori per trio jazz, Skyline ha conquistato il Grammy nella categoria Best Jazz Instrumental Album (terzo premio per Rubalcaba, così come per Ron Carter, e secondo per DeJohnette) ed è l’ottavo album pubblicato da Rubalcaba per la propria etichetta Passion Records: ricco di ritmi afrocubani, Skyline aleggia in magico equilibrio tra il jazz classico e le contaminazioni latinoamericane, scrivendo un’altra pagina memorabile della storia del trio come formazione più esatta per l’esecuzione della musica jazz. Ma Skyline non è solo un disco delicato e ispirato: è anche una forma di omaggio, artistico e musicale, che il pianista cubano ha concepito per i suoi due compagni di viaggio, Carter e DeJohnette, due musicisti che definire leggende viventi del jazz (ma forse della musica tout court) sarebbe addirittura riduttivo, e che tanto si sono spesi per Rubalcaba al momento del suo arrivo negli Stati Uniti da Cuba (insieme a un certo Dizzy Gillespie, a Charlie Haden e a tanti altri). Come dichiarato dallo stesso pianista, “Non importa quale musica metti nelle loro mani, alla fine rendono quella musica personale. Questo ha un valore incredibile per me. […] allo stesso tempo capiscono il loro ruolo in ogni momento. Ron e Jack sanno come mantenere il loro sound, il loro spirito, e allo stesso tempo soddisfare ad un livello molto alto la tua richiesta come produttore o direttore musicale o compositore. Combinano un talento speciale e una forte personalità con un alto livello di consapevolezza della responsabilità.” Nonostante Rubalcaba sia il principale motore del lavoro, in particolare da un punto di vista legato agli arrangiamenti, è chiaro anche ad un ascolto distratto come questo Skyline si sviluppi come un vero e proprio dialogo tra i tre musicisti, un saggio sulle potenzialità dell’interplay, sul contrappunto e sugli scambi melodici, sotto forma di piccola gioia per le orecchie e per il cuore.
L’opening offerto da
Lacrimas Negras è, fin dal titolo, una piccola orgia afrocubana di ritmiche affascinanti, governata dal drumming ispirato di DeJohnette e dal pianoforte spezzettato di Rubalcaba, e illuminata da un lavoro memorabile di Ron Carter, che prima accarezza il brano come una lieve bossa nova per andare poi quasi immediatamente a incendiarlo con un solo torrenziale e splendido. Originariamente pubblicato da Rubalcaba con il contributo vocale di Aymée Nuviola (2010), Lacrimas Negras è anche, probabilmente, uno dei brani dell’intera tracklist maggiormente calati nel contesto del latin jazz, come a dire: aspettatevi molto di più da questi dieci brani, perché non si tratta soltanto di musica latinoamericana (come se fosse poco, in ogni caso). Gypsy è la riproposizione di un brano di Carter presente nell’album Parade (registrato nel 1979 e pubblicato nel 1980), suonato originariamente da Carter con il grandissimo Chick Corea, Joe Henderson (sax tenore) e Tony Williams (batteria): inizia con una meravigliosa linea melodica del contrabbasso del Maestro per poi aprirsi in una walking melliflua, che accelera e rallenta e crea un andamento ondivago, ora rapido ora quasi misteriosamente sospeso, tappeto ideale per un intervento solista frammentario e suggestivo di Rubalcaba. Gypsy ondeggia tra lo slow jazz e uno swing infuocato, e si chiude su una nota sognante che riporta direttamente alla ripresa del tema iniziale. Silver Hollow è invece la ripresa di una composizione originale di DeJohnette, presente per esempio nell’album live Flower Hour di Pat Metheny del 1992 (insieme a musicisti del calibro di Herbie Hancock e Dave Holland). Il brano è introdotto da una linea meravigliosa del pianoforte, che poi incontra l’accompagnamento del contrabbasso di Carter e i piatti accarezzati da DeJohnette: Silver Hollow è uno splendida ballad in bilico tra il misterioso e il malinconico, sostenuta dal contrabbasso evocativo del Maestro che riempie soprattutto gli spazi lasciati vuoti dal pianoforte di Rubalcaba. Qui è il tocco del pianista cubano a fare la differenza, disegnando spazi che si aprono delicatamente e altrettanto fascinosamente si richiudono, ed è stavolta un meraviglioso solo di Carter ad accompagnare il brano verso la sua parte finale. Promenade è invece una composizione autografa di Rubalcaba, originariamente dedicata proprio a Ron Carter. È un saggio di misura e controllo, in cui la batteria di DeJohnette è ordinatissima nel tenere le fila del ritmo, fornendo l’ossatura sulla quale Ron Carter può costruire la propria precisissima walking e lanciarsi in un assolo quasi spiritato, sottolineato efficacemente dagli accordi sparuti, che si accendono come lampi delicati all’orizzonte nella notte, e dai grappoli di note sciorinate da Rubalcaba al pianoforte. A chiudere il brano proprio un solo geometrico e trascinante di DeJohnette, che prelude alla ripresa conclusiva del tema.Novia mia è un piccolo miracolo pianistico, un esercizio in bilico sull’abisso in cui si incrociano (per annichilirsi) melodia, armonica e ritmo, una ballad rarefatta che è di fatto un’esplosione silenziosa: Rubalcaba conduce l’ascoltatore per mano dentro un suono che (evidentemente) proviene da una matrice latinoamericana, ma intriso di una malinconia struggente e soprattutto di una rarefazione inusitata. È un brano semplice e lento, minimalista fino nel midollo, nel quale ogni nota, ogni accordo viene centellinato con grazie e sapienza di un altro mondo, fino a spegnersi in un silenzio che sa di catarsi. A Quiet Place è invece una composizione di Ralph Carmicheal originariamente inclusa dal Ron Carter nel suo album A Song For You del 1978, anche quello suonato con DeJohnette alla batteria: in questa versione si delinea un intero modo di concepire la composizione e la conduzione di un pezzo per trio jazz, con Carter a dettare tempi e ritmi e DeJohnette a fornire le fondamenta al percorso disegnato dal contrabbassista, mentre Rubalcaba si limita (si fa ovviamente per dire) a riempire gli spazi con grappoli di note, rimasugli melodici, armonizzazioni ora romantiche ora in odore di be-bop. Approfittando di questi spazi, i musicisti avviano un dialogo raffinato e ricco, che affascina. Ahmad The Terrible è invece una composizione di DeJohnette, ispirata all’opera e allo stile di Ahmad Jamal, uno dei più grandi pianisti di jazz di ogni tempo e che di DeJohnette (anche discreto pianista) era stato il maestro. La parte del leone qui la fa ovviamente Rubalcaba, che oscilla tra passaggi estremamente tecnici, intensità melodica e fill quasi percussivi, riassumendo tutti gli aspetti che rendevano peculiare il pianismo irrequieto di Jamal, ora vorticoso e turbolento e ora dolce e misurato, rendendo un efficace omaggio a questa figura così seminale della musica jazz. Siempre Maria è invece una composizione originale di Rubalcaba, ripresa dall’album del 1992 Suite 4 Y 20: il brano ritorna alle radici afrocubane del pianista, e costruisce la sua forte tensione grazie alla frizione tra l’impianto fondamentalmente melodico e il nervosismo ritmico di alcuni suoi passaggi. Se il pianoforte disegna paesaggi romantici e sospesi, fatti di lunghe concatenazioni di accordi, è l’irrequietezza ritmica incarnata dal drumming di DeJohnette, sovrapposto all’incedere misterico e sospeso dei bassi di Ron Carter, a cadenzare il brano: da una parte la ricerca della melodia, una lunga sensazione di ascesa sonora, e dall’altra l’elemento ritmico, esplicato nel solo misterioso del contrabbasso di Carter che in qualche modo sembra influenzare anche il pianoforte, erodendo lentamente la progressione cordale e spremendo formidabili grappoli di note dai tasti di Rubalcaba. RonJackRuba è invece una composizione originale del trio per questo album: leggenda vuole che il brano sia stato inciso all’insaputa degli artisti, impegnati in quel momento ad improvvisare tranquillamente su una traccia armonicamente più lineare rispetto alle altre che compaiono nel disco. Quale che sia stata la genesi del brano, RonJackRuba dimostra efficacemente come l’interplay e la dimensione di reciproco scambio/ascolto tra i musicisti avesse raggiunto in studio livelli stellari: il brano ha tutto l’aspetto di un’improvvisazione, ma un’improvvisazione che cresce nel confronto con tra i musicisti, alla quale ciascuno porta un quid nuovo, in un discorso che si rigenera e continua inesausto per tutti i quasi 8 minuti dell’esecuzione.
Skyline è un piccolo gioiello che ha il sapore senza tempo delle cose fatte bene, con cuore, artigianalità e capacità: un disco che unisce il jazz classico con echi afrocubani, che oscilla tra ballad romantiche e tentazioni latin jazz meravigliosamente suonato e ottimamente scritto. Di più, Skyline è un saggio delle potenzialità del trio come spazio sonoro d’elezione per il jazz: nella semplicità della sua composizione, il lavoro si nutre dell’interplay tra pianoforte, contrabbasso e batteria e mostra plasticamente l’importanza della dimensione dell’ascolto dell’altro (e degli altri): se immaginiamo la musica come un linguaggio, possiamo anche vedere il jazz come il luogo di un incontro, di un dialogo che non può prescindere dal reciproco ascolto tra le parti. La posizione dell’ascolto è intimamente una posizione di apertura: prevede attenzione, richiede tempo, ripaga con la conoscenza. In questa apertura ogni musicista beneficia della presenza dell’altro, ogni musicista riesce a parlare più fluentemente il proprio linguaggio inserendosi in uno scambio continuo di battute e immettendo nel flusso la propria voce, la propria personalità e il proprio stile: così Skyline diviene recita corale, corpo vivo che si sviluppa e cresce nel continuo rincorrersi tra le figurazioni pianistiche di Rubalcaba, le walking e gli strepitosi passaggi solisti di Ron Carter e l’accompagnamento sempre misurato e discreto di un gigante delle pelli come DeJohnette. Sia quanto le ritmiche si fanno serrate, come in Lagrimas Negras, sia quando il tessuto armonico sembra sfilacciarsi e ridursi al minimo fin quasi a scomparire, come nella rarefatta elegia di Novia mia, nelle nove tracce di Skyline si respira la grandezza di un trio che genera musica ed emozione, che riversa nei solchi una grammatica musicale al tempo stesso classica e moderna, codificata eppure sempre nuova, in continua evoluzione. Come ogni linguaggio anche il jazz è in continua evoluzione, e Skyline è un ottimo termometro per capire fin dove possa ancora spingersi.

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