How to portrait love: Low live @ Teatro Duse, Bologna (12/05/2022)

Un concerto a lungo rimandato causa pandemia e due biglietti comprati all’ultimo minuto per l’ultimissima fila, seconda galleria del Teatro Duse di Bologna, posti piuttosto centrali, visuale assai ridotta (si veda foto tristanzuola qui accanto, mentre la foto, assai più bella, che accompagna l’anteprima di questo post e che trovate anche in fondo all’articolo è opera di Francesca Garattoni, che ne detiene il copyright e che ringrazio ancora per la gentilissima concessione) ma alla fine conta quello che si ascolta e ogni concerto dei Low è, in qualche modo, una gioia per le orecchie (e per il cuore): se dovessi fare un riassunto della data unica italiana del tour della band di Duluth in supporto a HEY WHAT (album uscito lo scorso anno e di cui parlavamo qui e qui), credo che più o meno basterebbe questo, anche se a dire il vero ci sarebbe molto di più. Il Teatro Duse innanzitutto, parecchio più grande dell’Antoniano e del Teatro Puccini di Firenze, altre location nelle quali avevo avuto l’occasione di assistere ad un live della band di Alan Sparhawk e Mimi Parker; parecchio più grande e quasi pieno, a parte alcuni (prevedibili) forfait, immagino dovuti all’ultimo colpo di coda pandemico. Scopriamo subito come l’apertura dei cancelli, prevista alle 21, sia in realtà soltanto indicativa: alle 20:50 sul palco ci sono già le Divide and Dissolve, band doom proveniente da Melbourne e composta dalla chitarrista e sassofonista Takiaya Reed, di origini cherokee, e dalla batterista maori Sylvie Nehill. Il duo propone un set di violenza sonora inaudita, una successione di brani a dire il vero piuttosto simili tra loro dominati largamente dalle distorsioni e dai feedback chitarristici di Reed, lungo i quali Nehill si produce in un drumming inesausto, inventivo ma qua e là un po’ zoppicante (forse anche a causa del bilanciamento sonoro non proprio ottimale: immagino che riuscire a sentirsi sul palco non fosse semplicissimo, e il lavoro sui suoni non mi è sembrato eccezionale per questa prima parte della serata). L’assalto sonoro al calor bianco del duo di Melbourne stabilisce un mood per l’ingresso sul palco di Sparhawk e Parker e ha soprattutto il gran merito di abbattermi sul nascere un lieve e fastidioso mal di testa (con l’aiuto di una Tachipirina, è vero, ma insomma secondo me l’eradicazione della nascente nevralgia è stata comunque in larga parte da attribuire all’opera certosina di devastazione sonora operata dalle due simpatiche e talentuose ragazze). Reed e Nehill tengono egregiamente il palco per una buona mezz’ora, e si ritirano infine verso le 21:30; va in scena un rapido soundcheck scandito dalla consueta musica reggae di sottofondo e il sipario si riapre alle 22:15 circa su un set molto più ridotto di quello delle australiane: ai muri di amplificatori attraverso i quali Reed riversava sulla platea la sua violenza sonora, si sono sostituiti in posizione centrale il consueto setup minimale della batteria di Mimi Parker, alla sua sinistra la postazione del basso elettrico (dopo l’uscita dalla band di Steve Garrington, bassista per i Low dal 2008 al 2020, i pedali bassi sono affidati all’ottima bassista e contrabbassista americana Liz Draper) e, a destra, un piccolissimo ampli da chitarra (ampiamente microfonato) e la ricca pedaliera del buon Alan Sparhawk.
Il set della band di Duluth è sostanzialmente diviso in due parti: dapprima, una riproposizione filologica dell’ultimo lavoro,
HEY WHAT, che seguendo l’ordine della tracklist prevede la successione di White Horses, distorta e dilaniata dal lavoro immaginifico di Sparhawk sulla sua sei corde, e I Can Wait, proposte praticamente senza soluzione di continuità, replicando il flusso sonoro unico ascoltato nella versione incisa su disco, e seguite da All Night e Disappearing; Hey introduce ad una splendida rilettura di Days Like These, dove gli echi quasi kosmische musik della versione del disco lasciano spazio a un free form distorto e allucinato dominato sempre dall’inventiva di Sparhawk; il trittico finale di Don’t Walk Away, della devastante More e della suite The Price You Pay (It must be wearing off) , impreziosita dagli intrecci vocali di Sparhawk e Parker, conclude la prima metà del set. Ad eccezione del breve strumentale There’s A Comma After Still, escluso dalla scaletta, la riproposizione della sequenza di brani contenuta in HEY WHAT è stata completa, e la rivisitazione molto materica dei brani, spogliati di tutta la programmazione elettronica, ha consentito una riemersione delle voci e della melodia, istanze compresse dal magico lavoro di processing operato da BJ Burton sui brani e racchiuso nei solchi dell’incisione pubblicata su disco, producendo l’effetto straniante di ascoltare il disco, assolutamente riconoscibile, come se fosse spogliato di tutti gli orpelli, diretto e trasparente, immediato in tutta la sua portata emotiva.
La seconda parte della serata è stata dedicata alla riproposizione di alcuni brani del repertorio della band: dapprima due estratti da
Ones And Sixes, Congregation e la sempre coinvolgente No Comprende, poi la sorpresa di Sunflower, ripescata addirittura da Things We Lost In The Fire del 2001, e Disarray (unico pezzo proveniente da Double Negative, del 2018). Gli ultimi quattro brani in scaletta hanno invece permesso di ripercorre alcuni dei passaggi più amati della band nell’ultimo quindicennio: dal potentissimo riff di Monkey (The Great Destroyer, 2005) alla splendida, intima e raccolta riproposizione di Plastic Cup (The Invisible Way, 2013); da Especially Me (C’mon, 2011), con la voce di Mimi Parker a decollare verso l’iperuranio, alla chiusura affidata a When I Go Deaf (ancora da The Great Destroyer), riproposta in tutta la sua affascinante oscillazione tra ballad silenziosa ed esplosione distorta. When I Go Deaf è probabilmente uno dei miei pezzi preferiti della band, uno di quelli che sento più mio: riascoltarla riproposta dal vivo, a coronamento di una performance di assoluto livello, è stata la classica ciliegina sulla torta. Dopo una prima discesa dal palco, Sparhawk, Parker e Draper tornano in pista proponendo un breve encore comprendente What Part Of Me (ancora da Ones And Sixes) e Canada (dal meraviglioso Trust, 2002), che accompagna il live alla sua conclusione quasi alla mezzanotte, dopo circa un’ora e tre quarti di esibizione.
La data di Bologna è stata per me la prima, vera occasione di re-incontrare la musica dal vivo, dopo tre anni di quasi-silenzio legati all’emergenza pandemica: farlo a Bologna, una città che adoro, e al cospetto dei
Low, una delle mie band preferite, è stato come sempre un piacere e un privilegio. Il tour di HEY WHAT fotografa una band all’apice della capacità espressiva: niente di nuovo, per chi scrive, e comunque non sarebbe lecito attendersi di meno da chi non licenza un disco meno che perfetto da ormai quasi trent’anni. La musica dei Low si impernia da sempre sul drumming discreto, semplice eppure efficace, di Mimi Parker, e sull’intreccio insuperabile delle voci della stessa Parker e di Alan Sparhawk; ma è sul lavoro di quest’ultimo alla sei corde che gli orizzonti della band sembrano potersi allargare a dismisura, cavalcando panorami dipinti ora con la grazia di arpeggi quasi acustici, ora col fragore di violente, disturbanti esplosioni sonore. Il buon Alan ha nelle mani qualcosa che moltissimi altri musicisti, infinitamente più tecnici e più “puliti”, proprio non hanno: un suono tutto suo, un trasporto, un’urgenza capace di muovere tutta la musica della band e farla oscillare a piacere verso territori inesplorati, così che sai sempre da dove si parte ma non puoi mai intuire dove andrai a finire; i Low propongono una musica viva, che respira, cresce e cambia, mai uguale a se stessa per quanto semplice, a tratti quasi elementare, e che deve molta della sua forza (e del suo apparentemente inarrestabile crescendo qualitativo) proprio all’espressività chitarristica di Sparhawk, fattasi negli anni sempre più viscerale e pregnante. Perfettamente complementare il lavoro svolto da Liz Draper ai bassi: discreto, presente e preciso, l’accompagnamento di Draper rifinisce senza sovrapporsi inutilmente, scolpendo le fondamenta di un sound mutevole e insieme assolutamente riconoscibile, la cui primigenia fascinazione si lega indissolubilmente all’intreccio delle voci di Sparhawk e Parker, capace di riportare l’ordine anche nel caos distorto e violento delle svisate chitarristiche. Come si recitava in un vecchio film che adoro, L’amore non potrà mai essere descritto alla maniera del cielo, o del mare o di un altro qualsiasi mistero: è l’occhio con il quale vediamo, è il trasgressore nel santo, è la luce all’interno del colore”: ecco, in questa serata di grande musica dal vivo è parso proprio di poter scorgere la luce all’interno del colore, e quindi sì, perché no?, in fondo l’esperienza di un concerto dei Low è un po’ come quella di essere innamorati; non la si può descrivere, non si è in grado che di afferrarne i contorni, è insieme sfuggente e intensa e la sola che sai è che non riuscirai a dimenticarla e le sue sensazioni saranno destinate a restare con te ancora per un bel po’.

Low live al Teatro Duse, Bologna (12/05/2022) ©Francesca Garattoni

Questa foto tra le altre la potete trovare in questo bel reportage fotografico della serata presso il Teatro Duse. Ringrazio ancora Francesca Garattoni per la gentilezza e la disponibilità a lasciarmi usare l’immagine a corredo di questo breve testo.

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