The shape of funk to come: Power Station (Cory Wong, 2022)

La serialità è un concetto col quale, ai giorni nostri, tutti quanti abbiamo molta dimestichezza: non si tratta di un costrutto particolarmente innovativo, esiste anzi da sempre, e dalla letteratura (dall’epica al romanzo d’appendice, fino alle molte saghe moderne) ha pian piano preso campo sconfinando nel cinema e, chiaramente, nella televisione (chiamiamolo streaming, per stare più al passo dei tempi). Come tutti noi anche io ho le mie serie preferite; solo che una di queste, lo ammetto, è una serie un po’ particolare. Si intitola Cory and the Wongnotes, ed è a tutti gli effetti un’esperienza compiutamente multimediale: qualcosa a metà strada tra la musica di una big band funk e il format televisivo del talk show, il tutto mescolato con abbondanti (e per lo più esilaranti) dosi di fiction e, come potrete immaginare, concedendo un ampio spazio alla musica dal vivo. Se la cosa vi suona un po’ stramba, beh, sappiate che anche la “stranezza” fa parte del gioco: fin dalla sua prima, seminale stagione (ne parlavo con toni entusiastici proprio qui), Cory and The Wongnotes ha ambito ad essere qualcosa di più di un “semplice” progetto musicale, condiviso da Cory Wong con la sua band, ribattezzata appunto Wongnotes; piuttosto, si è sempre trattato del tentativo di coniugare la musica con la riflessione sulla musica condotta sul filo sottile dell’autoironia, tenendo insieme con camaleontica allegria il sacro e il profano, per così dire; uno show di varietà, e non a caso parlavo di questo progetto come “The Greatest Variety Show Ever” , qualcosa di insieme rassicurante, classico eppure profondamente contemporaneo, come sfondare una quarta parete, entrare a pieni passi dentro una multimedialità che in qualche modo c’è sempre stata ma non è mai stata “davvero” completa; e anche una riflessione su alcuni meccanismi della creazione artistica, della composizione musicale, e una meta-riflessione su certi passaggi della macchina dello spettacolo. Chiaramente, se sei Cory Wong e sei probabilmente uno degli artisti musicali e compositori più importanti di questo decennio, le sfide sono all’ordine del giorno: la sfida qui era andare ancora più avanti in questa sperimentazione sui linguaggi, e quindi ecco che il nuovo lavoro dell’artista di Minneapolis, intitolato Power Station e pubblicato lo scorso 29 aprile (giungo in ritardo, lo so, e me ne dolgo profondamente), costituisce l’occasione ideale per lanciare una seconda stagione della fortunata serie coinvolgente i Wongnotes, sebbene l’album correlato non venga pubblicato a nome dell’intero gruppo. D’altra parte è giusto così, la band non è coinvolta in toto in tutti gli episodi musicali e la serie si fa più ambiziosa, gli episodi tutti più lunghi (mediamente oltre l’ora di durata) e centrati su temi più vasti, di interesse generale, che spaziano dal ruolo dell’imitazione nell’arte e nella definizione del processo creativo allo sviluppo del groove, fino al ruolo degli strumenti all’interno di un ensemble (chitarra e basso, in particolare). Ecco, potreste pensare al format di Cory and The Wongnotes- Season 2 come a una musica che si offre nel momento del suo farsi: una musica contestualizzata dentro a un flusso fatto di riflessioni, interviste, momenti surreali (penso alle numerose “finte” pubblicità che costellano gli episodi) e piccole chicche seriali, nelle quali il buon Cory interpreta di volta in volta un giudice o un software di arrangiamento musicale (!!), senza dimenticare l’assoluta genialità di piccoli spezzoni come quello relativo a The Great British Bass Off, parodia di uno dei più noti programmi televisivi di argomento culinario (il celebre The Great British Bake Off, trasposto dalle nostre parti come Bake Off Italia). Insomma, come potrete intuire si viaggia sul filo del surreale, facendo leva su una comicità per lo più stralunata che, personalmente, trovo adorabile, e che riesce nella non facile impresa di creare uno spettacolo all’altezza (in termini di intrattenimento) dello sconsiderato livello artistico della proposta di Cory Wong e della sua band: non bisogna mai dimenticare che il focus è sempre la musica, e manco a dirlo parliamo di musica di altissimo livello.
Da questo punto di vista,
Power Station è un album fiume, con 15 tracce che diventano 19 nella Deluxe Edition (disponibile soltanto sul Bandcamp dell’autore). La storia è sostanzialmente (e perfettamente) divisa in tre parti: una prima parte di funk cantato, cinque brani che vedono susseguirsi alla voce diversi ospiti, nomi che vanno dai Chromeo a Joey Dosik fino a Lindsay Ell; una parte centrale costituita da cinque episodi all’insegna del più classico funk d’avanguardia suonato da Wong e dai suoi Wongnotes, con una serie di collaborazioni che creano svariati e mutevoli ibridi musicali (dal sound heavy di Mark Lettieri all’intervento groovy di Sua Maestà Victor Wooten, fino all’inconfondibile drumming di Nate Smith); e un’ultima tranche di cinque brani che sembrano riconnettere il lavoro del compositore di Minneapolis alle tentazioni country e alle levità acustiche già ammirate negli album gemelli Trail Songs (Dusk e Dawn) pubblicati un paio di anni fa (e dei quali parlavamo qui), col coinvolgimento di pezzi da novanta del calibro di Béla Fleck (per dirne solo uno, tanto scenderemo nei dettagli a brevissimo). Se poi siete dei completisti, la Deluxe Edition vi permetterà di mettere in conto anche una quarta parte contenente 4 ulteriori brani, tre dei quali provenienti da vecchi album più una rilettura del singolo Crisis, riarrangiati per l’occasione dai Wongnotes in una sorta di “Cory and the Wongnotes che rileggono Cory Wong (e se stessi)”: se adesso vi gira un po’ la testa sappiate che è normale, e in parte è anche un po’ l’effetto che devono fare queste canzoni.
L’apertura dell’album è affidata alla titletrack
Power Station, che funziona un po’ come un “main theme” per questa “seconda stagione” di Cory and the Wongnotes: un funk tiratissimo, scritto a quattro mani da Wong con il contributo del vecchio sodale Cody Fry, che sprizza energia (ed elettricità) da ogni passaggio e presenta perfino il band leader nell’inedita versione di vocalist in combo con Sonny T, Nêgah Santos e Jon Lampley. Ispirata (per esplicita autodichiarazione dello stesso Wong) alle scelte produttive di artisti come Talking Heads (per le scelte ritmiche) e Boniver (per il lavoro sulle tracce di voce), Power Station si giova anche della chitarra baritona di Mark Lettieri e presenta nel suo complesso un sound fortemente debitore dell’onnipresente eredità artistica di Prince (argomento anche questo palese, che avevamo sviscerato meglio a inizio anno parlando delle Paisley Park Session). Dopo questo roboante avvio, le emozioni forti continuano con la seconda traccia: Crisis, scritta da Wong con Jackson Stell, meglio noto come Big Wild, giovanissimo producer e compositore di musica elettronica americano, riesce nell’impresa fantascientifica di sposare il funk più contemporaneo della band del buon Cory con un panorama sonoro vicino all’elettronica e alla dance, scandito dai synth, dai loop e soprattutto dallo stratosferico falsetto di Stell. Crisis è un tour de force sonoro che, per immediatezza e piacevolezza melodica, rimanda alla mente alcuni episodi ricchissimi (e indimenticabili) di lavori precedenti, come per esempio la splendida Design (benedetta dalla voce spaziale di Kimbra) che apriva The Striped Album (se non sapete/non ricordate, rinfrescatevi la memoria cliccando qui), pur non entrandoci assolutamente niente. A livello di spendibilità si tratta di un singolo formidabile, con una linea melodica che resta impressa nella mente e una struttura musicale modernissima, quasi futuristica, al punto che uno inizia a preoccuparsi: se metti un pezzo del genere all’inizio del disco, con cosa potrai tenergli testa per altre 13 canzoni? Fortuna che stiamo parlando di Cory Wong, e quindi a ruota arriva J.A.M. (Just A Minute), con il contributo del duo elettrofunk canadese dei Chromeo: altro episodio fulminante, con Wong impegnato sia alla chitarra ritmica che al basso, J.A.M. è l’ennesimo singolo irresistibile, a metà strada tra il funk classico, scandito dai fiati degli Hornheads, e la modernità colorata di elettronica, con il talkbox a farla da padrone sui ritornelli. Tutto comincia da una serie di idee ritmiche condivise con Wong da Rob Harris, già chitarrista dei Jamiroquai: un po’ di storia relativamente alla composizione del brano si può ascoltare nell’episodio Creativity della seconda stagione di Cory and The Wongnotes (bellissimo, peraltro: segnalo la straziante storia di Picky, guardatelo per capire). First Avenue, scritta da Wong a quattro mani con il buon, vecchio (si fa per dire) Joey Dosik, è invece un brano più classico: semplice, orecchiabile e dominato dalla vocalità dell’artista di Los Angeles, con qualche vibe che rimanda decisamente al sound della casa madre Vulfpeck. Il pezzo cantato forse più vicino al “pop” di tutto il lotto è però la bellissima Every Time I Look At You, realizzata con il contributo alla voce e alla chitarra della cantautrice americana Lindsay Ell: dotata del più classico ritornello killer, Every Time I Look At You si basa completamente sulla giustapposizione dei diversi elementi ritmici (il pattern disegnato dalla batteria di Petar Janjic, la mano destra inarrestabile di Wong) contro le tessiture dei fiati, che colorano il brano di un funk latente pronto ad esplodere nel fraseggio all’unisono delle chitarre di Wong ed Ell che precede l’ultimo ritornello. Un’altra declinazione del pop del futuro, se vogliamo, figlia di una visione musicale che, come di consueto, schiude ad ogni sua manifestazione nuovi, affascinanti universi possibili.
Il segmento centrale dell’album, interamente strumentale, si apre con il funk di
Olympia, che vede dietro le pelli un intervento discreto del grandissimo Nate Smith: episodio prettamente chitarristico, ancora composto a quattro mani da Wong e Cody Fry, Olympia è arricchita da uno splendido solo del clarinetto basso di Sam Greenfield. La successiva Concrete la potremmo anche ribattezzare “when Snarky Puppy meet the Wongnotes”, e infatti c’è la mano (e la chitarra) di Mark Lettieri a tenere insieme il tutto, con incastrato nel mezzo un break strumentale di puro funk à la Cory Wong: ma lungo Concrete è soprattutto la performance totale del chitarrista degli Snarky Puppy a lasciare a bocca aperta, sia sulle svisate ritmiche “heavy” che ne scandiscono inizio e fine e che incorniciano il pezzo, sia sui fraseggi solisti (pensiamo soltanto a quello che precede la conclusione del brano). D’altra parte, lo stesso Wong non esita a definire Lettieri come uno di quei chitarristi dotati sia di overt che di covert chops, una macchina da musica capace di tessere trame in grado di legare magicamente tutto il lavoro di una band. Nel funk tiratissimo di Direct Flyte è nientepopodimeno che il grande Victor Wooten a prestare il suo basso creando una base perfetta per il solo del sax baritono di Greenfield, spalleggiato anche da Kenni Holmen e dal solito Eddie Barbash; e il groove di Wooten sfocia con commovente naturalezza in un solo assolutamente incredibile per intensità e ricchezza melodica e ritmica, quasi che il Fodera del buon Victor potesse prendere il posto di un’intera big band (spoiler: può). Il ritorno sul tema principale, dipinto dagli Hornheads, accompagna il brano verso la sua conclusione. Sulla successiva Here to Stay (scritta da Wong insieme al fortissimo bassista inglese Seth Tackaberry, cui si deve tra le altre cose questo splendido solo di basso su Ellie) va invece in scena un duetto prezioso tra la chitarra di Wong e il sound delicatamente melodico del grande Larry Carlton, con Lettieri in sottofondo impegnato (come al solito) a cucire tutto insieme con la sua chitarra baritona (che è un’autentica macchina da groove, tra l’altro made in Pistoia: è infatti prodotta dalla liuteria Bacci). A chiudere la sequenza di strumentali arriva infine il blitz di News To Me, composta da Wong ancora con Rob Harris: quasi uno showcase per il groove e soprattutto il feel senza pari del grande Nate Smith, che ci concede anche il piacere di un breve, formidabile passaggio solista nel bel mezzo del pezzo.
Nell’ultimo terzo del lavoro, Cory Wong ripone per un attimo da parte il motore funky delle sua musica per tornare, come già accennato, alle atmosfere country, acustiche e qua e là bucoliche delle sue
Trail Songs. Apre le danze la bellissima Road Trip, scritta da Wong ancora con Tackaberry e suonata con il chitarrista bluegrass Billy Strings (vincitore nel 2021 di un Grammy nella categoria Best Bluegrass Album per il disco Home) e con la band in formazione ridotta: un fraseggio solista del basso di Sonny T introduce al brano, imperniato sugli intrecci delle chitarre di Wong, Strings e Cody Fry, e Road Trip riesce a proporre un momento roots da manuale, colorato dall’irresistibile riff del sax di Eddie Barbash sui ritornelli. La band al completo torna sul palco per Over The Mountain, che vede la partecipazione di Sierra Hull (anche coautrice del brano) al mandolino (e Wong impegnato alla chitarra acustica): di nuovo, un passaggio di bucolico splendore, con i fiati a comporre un panorama agreste fatto di albe infinite e romantiche. Over the Mountain è il brano più lungo del lotto, e c’è spazio gli interventi solisti di Sonny T al basso, che si produce nelle sue consuete magie ritmiche, e della stessa Hull, il cui fraseggio ha una levità che fa molto road story ai tempi dei pionieri, con un carico di groove che di solito non si riconosce a uno strumento delicato come il mandolino. La ripresa del tema principale, gestito magistralmente dagli Hornheads, conferisce al brano un’epicità terrena e acustica che definirei assolutamente rara. Line and Lure e Pebbles costituiscono due episodi “particolari”, nei quali Wong si trova a duettare alla chitarra acustica con il solo banjo del grande Béla Fleck (uno a cui forse deve più di qualcosa, visto che anche il moniker di Cory and the Wongnotes presenta più di qualche somiglianza con il nome della band di Fleck, quei Béla Fleck and the Flecktones dei quali fanno parte tra gli altri anche i fratelli Wooten): se Pebbles prende probabilmente ispirazione dall’immaginario dei Flinstones (non sarebbe la prima volta, se ripensiamo a come Jet Screamer traesse ispirazione dai Jetsons: siamo sempre in orbita Hanna & Barbera), ed è un duetto irresistibile che sconfina spesso e volentieri nel bluegrass, Line and Lure aumenta il ritmo e permette a Wong di tornare a usare la sua inesauribile verve ritmica, posta stavolta al servizio del fraseggio di Fleck, di rara potenza emotiva. Con Pebbles e Line and Lure le atmosfere si distendono, e nel relativo minimalismo della strumentazione si sentono respirare i grandi spazi di quella cosa che chiamiamo “America profonda”: due episodi a metà strada tra bluegrass e roots rock, quasi due étude di musica tradizionale del grande continente americano, suonati da due strumentisti impareggiabili. A chiudere il percorso è il notturno lieve e romantico di Nostalgia, con il contributo di Cody Fry alla chitarra acustica e Wong impegnato a tracciare il tema del brano, spalleggiato dai fraseggi di Sonny T e dagli interventi, discreti ma decisivi, del sax di Eddie Barbash. La line-up per questo pezzo conclusivo è la stessa di Road Trip, e l’atmosfera da “true american song” altrettanto suggestiva: Power Station si chiude sull’ultima nota dell’elettrica di Wong, mettendo in scena l’ideale tramonto sul cammino di una carovana sperduta nella grande notte americana.
Dentro
Power Station ci sono almeno tre dischi, come ho cercato di far emergere con questo scritto: c’è il funk cantato, ibridato con la contemporaneità elettronica (i duetti con Big Wild e Chromeo) o con il pop (Every Time I Look At You); c’è il funk strumentale del quale Cory Wong e i suoi Wongnotes sono ormai maestri indiscussi, declinato però in forme molto diverse avvalendosi del contributo di ospiti musicali di rilievo assoluto (Mark Lettieri, Victor Wooten, Nate Smith, Larry Carlton); e c’è il roots rock dell’ultima parte, la musica che torna alla terra, quasi al viaggio dei pionieri, un sound acustico e bucolico pieno di rispetto e di passione per una tradizione musicale centenaria, riletta e reinterpretata con devozione e inesauribile inventiva. Basterebbe già solo questo a fare di Power Station un passaggio ineludibile per chiunque voglia restare al passo con la creatività di quello che io personalmente considero come uno dei compositori più brillanti (e importanti, anche se queste cose come sempre le capiremo solo più avanti, di solito in ritardo) di questi nostri anni: lo dico tutte le volte, ma Cory Wong non è soltanto un guitar hero, un mostro di tecnica e una delle chitarre ritmiche più riconoscibili e irresistibili in circolazione; è soprattutto un musicista, un artista e un compositore dotato di una Visione, capace di tenere insieme un universo musicale che altrove ho definito “in espansione”, un contenitore ricchissimo, coloratissimo, pieno di idee e ambizione, un paesaggio sonoro multicolore dal quale è meraviglioso lasciarsi rapire. Penso spesso a Wong come a un creatore di storie, un pifferaio magico, una di quelle figure un po’ mistiche e un po’ scanzonate che ti piace restare ad ascoltare anche se non capisci subito la portata di quello che vogliono dirti: ci vogliono un’ambizione smisurata e una classe infinita per tenere insieme quindici brani come questi, e lasciar esplodere gioiosamente tutto l’universo di idee, bizzarrie, riflessioni e multimedialità che trasuda dagli episodi della seconda stagione di Cory and the Wongnotes, a quest’album strettamente interconnessa. Non starò qui a fare la solita tiritera sulla qualità strumentale e artistica del lavoro, vi basti considerare che siamo su un altro pianeta: già i Wongnotes sono la band che molti musicisti al mondo possono soltanto sognare, con un bassista completamente folle (Sonny T.), un batterista ferocemente preciso (Petar Janjic), una percussionista fantastica (Nêgah Santos) e un tastierista dalla sensibilità più che esacerbata (il poco decantato, e infatti anche io ho sin qui colpevolmente omesso di menzionarlo, ma assolutamente fondamentale Kevin Gastonguay), ai quali devono aggiungersi i sei Hornheads capitanati da Michael Nelson, una sezione di fiati così stretta che sorprende riescano a prendere fiato dopo ogni fraseggio; ma ai Wongnotes si deve aggiungere una fila di ospiti speciali da far tremare le vene e i polsi, che probabilmente non ti potresti permettere se non fossi Cory Wong e non producessi la musica straordinaria che produci ormai da diversi anni a questa parte: che si tratti di collaborazioni con giovani producer di musica elettronica o elettrofunk come Jackson Stell/Big Wild o i Chromeo, di Nate Smith, di Victor Wooten, di Mark Lettieri, Larry Carlton o Béla Fleck, di Lindsay Ell o della bravissima Sierra Hull, la qualità degli artisti coinvolti resta assolutamente indiscutibile e ben al di sopra di qualsiasi media. Amalgamare tutto questo ben di dio è la vera Arte di Cory Wong, e farlo dentro una cornice di Senso: è per questo che vado dicendo che Cory Wong ha una Visione, che la sua musica è musica per l’oggi e per il futuro, qualcosa cui continueremo a guardare per anni e anni per comprenderne i meccanismi, le divergenze, le ispirazioni e le suggestioni. Non si tratta soltanto di funk: Cory Wong ha a che fare col groove, col feel, con il pieno senso della Musica, ed è un dono per tutti gli appassionati di questo triste pianeta. Un dono che, come se non bastasse, abbiamo la fortuna di poterci godere diverse volte all’anno (non dimentichiamo che il buon Cory è uno molto prolifico): in attesa di una terza stagione di Cory and the Wongnotes, con Power Station c’è comunque molta, moltissima carne al fuoco, e come avrete capito annoiarsi sarà estremamente complicato…

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