Re-immaginare il futuro. Everything All Of The Time: Kid A Revisited (Rick Simpson, 2020)

La miglior misura del valore di un’opera d’arte risiede forse nell’influenza che essa continua a esercitare nel suo “ambiente” (e al di fuori) anche a distanza di molti anni, un’influenza che non è banale ammirazione ma sprone, ispirazione, riferimento, e non c’è probabilmente nel mondo della contemporanea musica popolare una band che possa vantarsi di aver avuto sull’universo-musica un’influenza pari a quella esercitata dai Radiohead nell’ultimo quarto di secolo, a partire da Ok Computer fino ad arrivare alla diade seminale rappresentata da Kid A e Amnesiac (il primo ha compiuto 20 anni pochi mesi fa, il secondo li compirà tra poco, a giugno). Esiste un variegato universo di riletture dei lavori della band di Oxford, e molto spesso gli ammiratori di questi lavori hanno scelto di ibridare il linguaggio della band (già ibrido di per sé) con il jazz (ho in mente soprattutto le numerose versioni di brani del repertorio di Yorke e soci offerte negli anni da Brad Mehldau), che rappresenta forse il linguaggio più contaminato, dinamico e fluido della nostra contemporaneità musicale: la sola e autentica musica colta del nostro tempo, come scrivo spesso. Questo Everything All of the Time: Kid A revisited, uscito per Whirlwind Recordings lo scorso 23 Ottobre (proprio in occasione del ventennale dell’album originale), rilegge il capolavoro dei Radiohead adattandolo alla forma del quintetto jazz acustico: il pianista londinese Rick Simpson, accompagnato dalla sassofonista Tori Freestone (sax tenore), James Allsop (sax baritono), Dave Whitford (contrabbasso) e Will Glaser (batteria), riarrangia i dieci brani di Kid A in maniera affascinante, lasciando libero sfogo alla fulgida immaginazione e alle improvvisazioni degli strumentisti, riuscendo con grazia e semplicità a catturare e far proprie l’essenza e lo spirito d’avventura che connotava le tracce originali, allo stesso tempo ritagliando per ciascuna uno spazio diverso, nuovo. È soprattutto il coraggio di questi arrangiamenti a colpire: di ogni brano Simpson sembra cogliere il nocciolo, il centro pulsante, offrendolo in tutta la sua ricchezza all’ascoltatore e ai suoi compagni di avventura, e creando spazi nuovi nei quali ogni voce strumentale possa andare ad abitare, illuminando angoli sconosciuti e collezionando suggestioni affascinanti.
Everything in its Right Place è frammentata, scoscesa come la sua versione originale, e i musicisti la attraversano come se volessero strapparne il tessuto per adeguarla a fattezze nuove: nell’alveo scavato dai fiati e dal contrabbasso, Simpson cala un nervoso solo di piano che fa da apripista per la sciarada di note che apre Kid A riecheggiando la geniale figurazione di synth originale, e ricreando il suono di una musical box uno po’ sgangherata cui fanno da contraltare i fraseggi tenebrosi, ora teneri e ora scabri, dei sax tenore e baritono di Freestone e Allsop, che rileggono le melodie originali e le sgranano in sezioni d’improvvisazione infuocate e variamente caotiche. Basterebbero queste due tracce per lasciare a bocca aperta e dare un’idea della capacità di questi strumentisti di prendere il testo e plasmarlo attivamente, trovandogli una nuova, inaspettata dimensione, ma Kid A Revisited non si ferma certo qui. The National Anthem comincia con un duetto tra il piano di Simpson e la batteria di Glaser per venire presto sconquassato dai bassi maestosi di Whitford, una pulsazione prepotente e sotterranea, un moto sussultorio che si accompagna alle oscillazioni dei fiati e recupera la figurazione originale proposta da Colin Greenwood: l’effetto è quello di un basso continuo, un accumulatore di tensione sopra al quale si accresce il caos delle libere improvvisazioni di fiati e piano. Dopo la tempesta giunge la quiete di How to Disappear Completely, con i piatti di Glaser che accompagnano il piano a creare un’atmosfera rarefatta, malinconica, e il sax baritono di Allsop a riproporre la linea melodica della voce: lentamente il piano si solleva, e cresce una tessitura di sottofondo degli archi cui si accompagna il contrabbasso ancora filologico di Whitford. È impressionante come una rilettura totalmente acustica possa conservare immutato il fascino magnetico dell’originale, nel quale, lo ricordiamo, era l’ondes martenot di Jonny Grennwood a sostituirsi agli intrecci degli archi: pian piano il maelstrom emotivo si solleva, e il brano sfiora punte di abbacinante bellezza, sottolineate da piccole cascate jarrettiane di note provenienti dal pianoforte di Simpson. Treefingers, strumentale completamente sintetico che tagliava a metà l’opera di Yorke e soci, evolve in un bozzolo sospeso fatto di accordi sparpagliati del piano e rintocchi frammentari della batteria, gonfio di un’eco profondissima e delicata, un free form seducente e carico di una tensione mai completamente risolta; una parziale catarsi arriva nell’up-tempo di Optimistic, dove gli accordi del piano si aprono grazie agli interventi dei fiati, mentre il nervosismo ritmico della linea di contrabbasso trova sponda nei ritmi composti e ricomposti di Glaser. Sono ancora gli interventi solisti del piano prima e del sax baritono dopo a spalancare vertiginose voragini che portano dentro e fuori dall’immagine del brano originale, in un saliscendi che amplia il panorama in direzione di orizzonti affascinanti. In limbo si apre con il lirismo del contrabbasso di Whitford, che duetta da pari col sax tenore di Freestone mentre Simpson snocciola grappoli di note al piano: lo spazio torna a dilatarsi mentre lo stesso Simpson fraseggia piccoli brandelli bluesy che si mescolano alle melodie originali senza soluzione di continuità, ma è ancora Whitford a riportare ordine, imbastendo un groove che fa da impalcatura per il rincorrersi di piano e sax che accompagna il brano verso la sua improvvisa conclusione. Idioteque (forse il pezzo impossibile da rileggere per eccellenza, di certo il più fortemente connotato di tutto Kid A) si apre con una figurazione ritmica sincopata del piano, e l’ingresso di Glaser pone le fondamenta per il dialogo graffiante tra il baritono di Allsop e il tenore di Freestone, ed è di fatto ancora un free-form dal quale emerge solo alla fine un groove dai contorni decisi, che ricalca nel suo incedere proprio il finale del brano originale, reso frastagliato dal solo travolgente di Allsop. Morning Bell esordisce con un solo di batteria frammentato e clamoroso eseguito da Will Glaser, autentico protagonista di queste riletture, capace di imporre il proprio senso del ritmo su tutti questi brani, tracciando e definendo quegli spazi che gli altri strumentisti andranno a occupare: le figurazioni libere di Glaser incrociano a un certo punto la ritmica che caratterizzava il brano originale, ed è allora che il resto del quintetto entra dentro il pezzo, riproponendone il tema. Simpson si ritaglia il proprio spazio solista nel mezzo di quella che pare una pausa strumentale: presto sono Glaser e il contrabbasso di Whitford a sostenere i suoi fraseggi, col batterista che torna sul finale a dominare la scena col suo drumming irrequieto e dinamico. A chiudere il lavoro giunge infine la rilettura di Motion Picture Soundtrack, rispettosa della natura di ballad notturna e malinconica del brano originale, guidata dal piano di Simpson, accarezzata dal lirismo dei fiati e resa sottilmente irrequieta dalle pulsazioni ritmiche imposte da Glaser. Come un’onda di marea, Kid A Revisited si spegne sulla spiaggia con un ultimo grappolo di note del piano, in un passaggio di affascinante contemplazione.
Quando ho parlato di
Kid A in occasione del suo ventennale, qualche mese fa, ho voluto chiudere quell’analisi con un verso di Peter Handke, ispiratomi dal suono puro che si sente a corollario di Motion Picture Soundtrack, l’ultimo suono prima della fine del disco: quel suono mi ha sempre fatto pensare a un inizio, il che è paradossale, se volete, considerando che arriva alla fine del lavoro. “Il verbo adatto alla gioia: cominciare”, recitava il verso di Handke: ed è probabilmente questo senso di inizio, di stare per cominciare qualcosa, che mi è sempre rimasto dentro ad ogni ascolto di Kid A, secondo me il vero succo di tutto il lavoro. Cominciare vuol dire anche trovarsi a un incrocio e poter intraprendere ogni strada: significa avere paura, sentirsi soli, temere di sbagliare, ma anche essere inebriati dalle possibilità, potenzialmente infinite, essere curiosi di vedere dove possano condurre i prossimi passi, prendere il coraggio a due mani e andare. Occorre coraggio per uscire dalla porta, prendere una strada e semplicemente andare: non sai mai dove i tuoi passi possano condurti. Eppure, ne sono convinto, è quello il senso reale, vivo, attivo di Kid A: andare, cominciare, partire. Se c’è qualcosa che Kid A ispira, per me è il coraggio: e sono coraggiose le scelte compiute da Simpson nel riarrangiare questi 10 brani, e non soltanto perché parlando di questo album si parli ormai di un “testo” classico della musica pop contemporanea, ma perché è proprio quel coraggio il senso dell’intera operazione, e Simpson lo ha compreso appieno. Mi capita spessissimo di sentirmi dire, e ne sono fortemente convinto a mia volta, che il vero musicista, quello che ha preso coscienza di sé e dei propri mezzi, plasma la musica: suonare non vuol dire soltanto mettere in fila delle note, ma plasmarle per renderle proprie, per aprirle a un orizzonte di senso nuovo, differente. Riarrangiare Kid A per un quintetto di jazz acustico può sembrare un’idea buffa, o semplicemente curiosa, una di quelle piccole bizzarrie di cui è pieno il mondo: e invece significa averne compreso completamente il senso, il coraggio, lo spirito d’avventura che lo anima. Le scelte compositive di Simpson, anche laddove sembrano rifarsi al testo, sono in realtà sempre estremamente radicali, esplorative: come acrobati senza rete di sicurezza, i musicisti scivolano accanto, sopra e intorno alle strutture dei brani, volteggiando come a voler tracciare nuove traiettorie, ora intime, ora ardite. Dentro questo Kid A Revisited ci sono un milione di umori, emozioni e sentimenti diversi, e spesso contrastanti, un panorama fatto di tessiture stranianti e mai uguali a se stesse, un labirinto sonoro che non dà punti di riferimento. C’è tutto e per tutto il tempo, Everything All of the Time: Simpson, Freestone, Allsop, Whitford e Glaser (che, discorsi a parte, sono dei musicisti clamorosi) spingono costantemente e senza alcuna paura queste dieci tracce verso e oltre i propri limiti, e lo fanno con coraggio, entusiasmo e un pizzico di incoscienza. D’altronde, questo e solo questo è il modo di preservare l’energia e il portato emotivo del disco originale: non accettare di categorizzarlo, non rinchiuderlo dentro un recinto, non metterlo sotto una teca, ma trattarlo per quello che è, materia viva, pulsante. In Everything All of the Time: Kid A Revisited, Simpson col suo quintetto plasma le tracce originali dei Radiohead per rompere la loro cornice, liberarle e lasciare che occupino tutto lo spazio: lo fa usando la grammatica del jazz, che altro non è se non un linguaggio universale di fluidità, libertà, evoluzione, cambiamento; lo fa re-immaginandole da capo, attraverso una successione di arrangiamenti seducenti, affascinanti e sorprendenti; e lo fa, in ultima analisi, restituendone il cuore pulsante all’ascoltatore, nella sua essenza più pura, con tutti i rischi di annichilimento che questo comporta. Everything All of the Time: Kid A Revisited è un disco che insegna il coraggio che occorre per essere liberi, superare la vertigine e fluttuare come acrobati senza paura, senza reti di protezione.

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