Steely Dan in a nutshell: i 50 anni di Countdown to Ecstasy (Steely Dan, 1973)

Se è vero che il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un’artista, possiamo solo vagamente immaginare quanto complesso debba essere stato per Donald Fagen e Walter Becker dare un seguito alle miriadi di percorsi possibili che sgorgavano copiosi dalla prova d’esordio della loro combo, quegli Steely Dan che avrebbero contribuito a dare forma a una fetta enorme di musica pop proveniente da oltreoceano (ma i due questo ancora non potevano saperlo… oppure sì, mai sottovalutare i geni), attraverso un mix assolutamente insolito e spettacolarmente ispirato di tentazioni e atmosfere jazz, immediatezza rock e soprattutto un’eleganza pop del tutto fuori dal comune: se tutte queste possibilità si aprivano all’ascolto della prima prova sulla lunga distanza della band, Can’t Buy A Thrill (1972), realizzata (come sempre, da lì in avanti) sotto l’ala protettrice del deus ex machina di questo singolare duo di musicisti/songwriter tanto brillanti quanto fastidiosamente (e ben più che paranoicamente) perfezionisti, quel Gary Katz che per primo li portò a Los Angeles e li introdusse nella ABC Records, la necessità di dare un seguito a un inatteso successo commerciale avrebbe ben presto cozzato con la mole di impegni live della band (che ai tempi vantava un’intensissima attività dal vivo) e soprattutto col desiderio di dedicare un tempo sempre maggiore e più approfondito proprio al lavoro di composizione e di registrazione in studio. Ne nacque un album che, a un primo ascolto, pare subito più coeso e costruito del precedente, ma che pure invece, paradossalmente, vide la luce quasi esclusivamente per la necessità di ampliare il materiale da proporre al pubblico nella dimensione live: un album di musica scritta con in mente soprattutto il palco, ma realizzata con quel dispendio di attenzione al particolare (quantomeno quello possibile a fronte dei tempi ristretti della produzione) che avrebbe costituito il modus operandi privilegiato delle future incursioni sonore della band. Band che, in effetti, ai tempi di Countdown to Ecstasy, questo il titolo della seconda fatica sulla lunga distanza, poteva ancora fregiarsi appieno di questa etichetta: oltre a Fagen e Becker, degli Steely Dan facevano ancora parte il batterista Jim Hodder e i due chitarristi Denny Dias e Jeff “Skunk” Baxter. Rispetto al disco d’esordio la band si era ridotta di un componente, avendo promosso definitivamente Fagen al ruolo di frontman e voce solista: la defezione di David Palmer, che prestava la voce a diverse tracce contenute nella tracklist di Can’t Buy A Thrill, rappresentò, col senno di poi, il prodromo della disgregazione del gruppo, che una volta conclusa l’esperienza di Countdown to Ecstasy si sarebbe ridotto alla forma del duo. Fagen e Becker avrebbero così potuto realizzare appieno il proprio disegno di dedicarsi completamente alla composizione, stesura, registrazione e missaggio dei brani, letteralmente seppellendosi vivi in studio insieme a miriadi di formidabili session musicians che avrebbero contribuito a rendere storici molti dei brani di là da venire. Ironicamente (ma non troppo) un album nato per sopperire alla necessità di materiale da eseguire dal vivo avrebbe in qualche modo rappresentato anche la pietra tombale sull’attività live della band: dopo Countdown to Ecstasy infatti, sempre nell’ottica di dedicarsi pienamente alla realizzazione tecnica dei dischi, la band sospese completamente l’attività live, uno iato che sarebbe durato vent’anni pieni (gli Steely Dan avrebbero ripreso ad esibirsi solo nel corso degli anni ’90, prima di rientrare in studio per l’acclamato Two Against Nature del 2000).

Pubblicato nel luglio del 1973, quindi ormai cinquant’anni fa, Countdown to Ecstasy comincia a trattare quei temi che renderanno particolarmente riconoscibile il songwriting di Donald Fagen, al tempo stesso premendo ancora di più l’acceleratore, dal punto di vista “sonoro”, verso la realizzazione di quella peculiare mistura di pop, rock, funk e jazz che avrebbe rappresentato il marchio di fabbrica del sound degli Steely Dan più maturi. In particolare, Fagen comincia qui ad affinare le proprie armi letterarie e a comporre su temi quali l’abuso di droghe (My Old School), l’invidia di classe (spesso però vissuta dalla parte dei “diversi” e dei “reietti della società”, come nella critica al vetriolo di Show Biz Kids) o gli eccessi del West Coast Lifestyle (ancora Show Biz Kids, ma anche un certo esoterismo borghesuccio eletto a bussola morale di comodo del quale si fa beffe Bodhisattva), senza tuttavia rinunciare ad affrontare riflessioni che sono più ”figlie dei tempi” come quella sull’orrore nucleare affidata alla traccia di chiusura dell’album, King of the World. Nell’affrontare tutte queste tematiche, Fagen sembra sempre perfettamente reminiscente dello stile e degli stilemi degli amati autori della Beat Generation, scegliendo volontariamente un linguaggio ellittico, insieme enigmatico e coloratissimo, un esplosione di personaggi e storie che sembrano pescare tanto dagli eccessi di un Naked Lunch di Burroughs (libro dal quale, non dimentichiamolo, la band prese il nome) quanto, più in generale, da quel mondo underground abitato dalla feccia più autentica, da romantici perdenti (Deacon Blues non è poi così lontana) e soprattutto da strambi nerd jazzofili così simili a ciò che gli stessi Becker e Fagen erano stati in gioventù. L’attenzione per tutte queste tematiche, insieme alla ricerca di un suono pulito e sempre più ben tornito nelle sessioni di studio (che però qui non si è ancora spinta oltre i limiti dell’ossessione), iniziano a formarsi con chiarezza proprio con questo album e andranno, come già accennato, a costituire la vera ossatura sulla quale si reggeranno i dischi della “maturità” della band, se così vogliamo definirla, ovvero i grandi capolavori di fine anni ’70 (su tutti i meravigliosi Aja e Gaucho, dei quali abbiamo già parlato con estrema dovizia di particolari qui e qui). Una recensione che ho letto online definisce Countdown to Ecstasy come the first Steely Dan album that really feels like Steely Dan, e in effetti è proprio vero: tanto episodico, quasi rapsodico (per quanto coloratissimo e ricercato) appariva il pur sempre sfolgorante debutto di Can’t Buy A Thrill, dell’anno precedente, quasi fosse una raccolta di singole canzoni più che un album fatto e finito e soprattutto pensato tutto insieme, quanto coesa, densa e quasi come un unico blocco si presenta questa seconda prova, in tutto e per tutto una versione in miniatura del sound che verrà.

Il titolo dell’album, Countdown to Ecstasy, venne scelto in maniera scherzosa per ironizzare sulla ricerca di spiritualità a buon mercato che costituiva una bella fetta del substrato culturale West Coast (verso il quale, come detto, l’acume satirico di Fagen si sarebbe sempre esercitato lungo l’intera storia della band e anche la propria carriera solista), mentre lo strano artwork scelto per la cover, con misteriose figure su un diafano sfondo azzurro/verdognolo, venne realizzato dall’allora compagna di Fagen, Dorothy White, e scatenò una forte ripulsa da parte dei vertici della ABC Records, assolutamente contrari a una copertina che, originariamente, riportava tre sole figure disegnate, creando una discrepanza definita “inaccettabile” con il numero dei componenti della band (ai tempi cinque, come detto), ripulsa che venne vinta solo aggiungendo (contro la volontà di Fagen e Becker, che tuttavia dovettero cedere) altre figure al disegno. L’album venne accolto molto bene dalla critica, dato il suo indiscutibile valore musicale, e ottenne anche un ottimo risultato di vendite, venendo certificato disco d’oro dalla Recording Industry Association of America (RIAA). Ma veniamo al vero succo di questo racconto, ovvero le canzoni che popolano la tracklist di Countdown to Ecstasy.

Seguendo Wikipedia, con il termine di “bodhisattva” si identifica, nel buddhismo, una persona che pur avendo ormai raggiunto l’illuminazione, e avendo quindi esaurito il ciclo delle proprie esistenze terrene, decide di propria sponte di rinunciare provvisoriamente al Nirvana per continuare a reincarnarsi e dedicarsi, sotto la spinta della compassione, ad aiutare gli altri esseri umani a raggiungerlo: penso che solo dalla penna di Donald Fagen potesse uscire un brano che è appunto un’invocazione a Bodhisattva compiuta però da un tizio con l’apparentemente insormontabile e idiosincraticamente prosaico problema di riuscire a vendere casa. Il mercato immobiliare impazzito è sempre stato fonte di ispirazione per la musica rock (mi torna in mente Get ‘Em Out By Friday dei Genesis, tanto per citarne una): qui la scherzosità surreale e preziosa delle liriche, molto à la Fagen, si appoggia su un blues rock graffiante e ricco di elementi e reminiscenze indianeggianti, impreziosito da un pianoforte martellante e soprattutto da un riff di chitarre elettriche abrasive e affilatissime; Bodhisattva è tagliata a metà da un formidabile solo bebop del barbutissimo (e spaziale) Denny Dias alla chitarra, un fraseggio di qualità soprannaturale nel quale nessuna nota è meno interessante di quella che la precede né, magicamente, di quelle che la seguono; e dopo un’infuriata walking del basso di Walter Becker (bassista formidabile, tra le altre cose), accompagnata da una pioggia di arpeggi del piano cui rispondono le stesse chitarre, si torna al refrain e da qui a un secondo assolo di chitarra, stavolta suonato da Jeff Baxter. La successiva Razor Boy gioca con l’immaginario fageniano, introducendo figure misteriose (come il razor boy del titolo, appunto), e stempera alcune voluttà caraibiche (espresse dal multiforme ingegno di Victor Feldman, in carica di marimbe e vibrafoni) nelle svisate della pedal steel guitar di Baxter, con una linea melodica dolcissima e romanticamente nostalgica nei ritornelli: un episodio breve ed evocativo, con qualche nota di coloriture jazzy che non guastano mai e che a tal proposito si giova soprattutto di una leggenda del contrabbasso jazz come Ray Brown a prestare il proprio inimitabile supporto ritmico al brano (lo si sente distintamente chiudere l’esecuzione in solitaria). The Boston Rag torna a gravitare nei dintorni del rock, presentando un notevole assolo di Baxter appoggiato sugli accordi cadenzati di Fagen al piano, ed è un brano quasi semplice per una band da sempre abituata a comporre arabeschi armonicamente assai complicati. Tanto The Boston Rag si rifà all’estetica del rock, quanto la successiva Your Gold Teeth (che avrà un secondo capitolo nell’album Katy Lied del 1975) torna a pescare dalle armonie e atmosfere dell’amato jazz: sono circa sette minuti dominati e attraversati in lungo e largo dal piano elettrico di Fagen, che compone gustosi e spericolati fraseggi e passaggi solisti oltre a intessere la struttura sulla quale si sostiene il testo, al solito allusivo, immaginifico e pieno di fantasiose digressioni (Tobacco they grow in Peking/ In the year of the locust you’ll see a sad thing/ Even Cathy Berberian knows/ There’s one roulade she can’t sing/ Dumb luck my friend/ Won’t suck me in this time).

Show Biz Kids, un grooveggiante funk molto urban e piuttosto newyorchese nello spirito, si presenta come una delle (da qui in avanti moltissime) parodie dello stile di vita della West Coast, verso il quale la penna di Fagen sarebbe storicamente sempre stata molto affilata (While the poor people sleepin’ (Go to Lost Wages)/ With the shade on the light (Lost Wages)/ While the poor people sleepin’ (You go to Lost Wages)/ All the stars come out at night, dove Lost Wages è una divertente storpiatura di Las Vegas che gioca con il significato letterale di “stipendi perduti”; o anche, in maniera ben più diretta, nei versi Show business kids making movies of themselves (Go to Lost Wages, Lost Wages)/ You know they don’t give a fuck about anybody else (You go to Lost Wages), e il campionario di esempi potrebbe allungarsi a dismisura). La successiva My Old School contiene un certo grado di riferimento auto-biografico, non così consueto nel songwriting di Fagen (pensiamo solo a quanto sfumata e delicata sarà, una decina di anni più tardi, la rievocazione della giovinezza compiuta dall’artista americano nel suo leggendario debutto solista, The Nightfly): racconta infatti, con una miriade di riferimenti puntuali, di un arresto nel quale Fagen stesso incorse per aver consumato della marijuana ai tempi della high school, e di un clima/contesto oppressivo e giudicante dal quale l’artista scelse di allontanarsi. Nel racconto dello stesso Fagen, riportato in un articolo del 2006 di Entertainment Weekly intitolato, non a caso, Back to Annadale,

But just outside of Adolph’s, he sees it. The house. “Right there is the house that I was busted in,” [Donald Fagen] says, gesturing toward a two-story structure nearby. Here, finally, lies the story behind “My Old School”. It was around 5 a.m., a Thursday in May 1969, when a swarm of sheriff’s deputies descended on Bard, sweeping through dorms and off-campus residences, including this small house, where Fagen lived with a roommate. “They went up and down the halls, knocking on doors,”says [friend] Terence Boylan, who was in his room at Ward Manor at the time. “Toilets were flushing everywhere to get rid of any pot that you had. I threw mine out the window. All you had to do was say to the cop, ‘What are you doing?’ They’d say, ‘That’s it, resisting arrest.’ Somebody would say, ‘What the hell is going on?’ ‘Oh, profanity! Arrest him.” Fagen, Becker, and Fagen’s girlfriend, Dorothy White, were all dragged off to jail.

Musicalmente, My Old School è un po’ un rock blues e un po’ un R’n’B, con un altro assolo monumentale di Dias alla chitarra; e ci sono poi soprattutto gli interventi e i comp dei fiati a colorare di jazz i quasi sei minuti di questo piccolo, curatissimo instant classic. My Old School si spenge nelle delicatezze rock-country di Pearl of the Quarter: sotto le mentite spoglie di una canzone d’amore vecchio stile si nasconde il racconto dell’innamoramento impossibile per una prostituta, che probabilmente ignora del tutto l’esistenza del suo spasimante. Intrisa di dolorosa e nostalgica ironia, Pearl of the Quarter è una breve, scintillante ballad incastonata nella tracklist prima della chiusura affidata al rock-prog di King of the World (che Becker definiva a tale of terror and loathing in the far-flung future, come si ascolta qui): brano peraltro abbastanza attuale, visto che si confronta con gli orrori della corsa all’armamento nucleare (i cui prodromi sono al centro di uno dei film più chiacchierati di questa nostra stagione cinematografica, ovvero Oppenheimer di Christopher Nolan). Usando un linguaggio poeticamente colorito e pieno delle solite, brillanti allusioni letterarie, Fagen dipinge l’orrore di un mondo impazzito, adagiando le sue preoccupazioni su un rock che diventa prog soprattutto nelle linee soliste dei synth a intarsiare i ritornelli, sostenute da un groove che invece vira più decisamente verso il funk e l’R’n’B; ma sono anche le chitarre di Dias e Baxter a duettare con i synth, producendo un botta e risposta enigmatico e mesmerico che ancora oggi è in grado di sedurre, e contribuendo a determinare tutt’oggi il fascino assoluto di questi scarsi cinque minuti di grande musica.

Countdown to Ecstasy è a tutti gli effetti il primo disco nel quale gli Steely Dan suonano come gli Steely Dan: un album popolato di personaggi che sono altrettante rappresentazioni dello squallore nascosto sotto la coperta corta del Sogno Americano, una galleria di canaglie della più varia estrazione sociale, dall’ubriacone di The Boston Rag alla prostituta di Pearl of the Quarter, dagli ideali rappresentanti dell’Alta Società West Coast immortalati in Show Biz Kids ai borghesi in cerca di spiritualità a buon mercato di Bodhisattva; una galleria di perdenti, per lo più, popolata con pantagruelica dovizia di particolari dall’immaginazione febbrile del Donald Fagen songwriter, capace di farti entrare letteralmente dentro questo mondo tutt’altro che idilliaco. Il livello del dettaglio con il quale vengono descritti questi personaggi e le loro storie (queste otto canzoni sono soprattutto altrettante storie, veri e propri racconti) è in grado infatti di catturare permanentemente l’immaginazione, spingendoti a guardare anche dove c’è “l’apertamente squallido, il fastidioso, il brutto”: in tutto e per tutto, qualcosa che farà parte dello stile graffiante, colorato e fantasioso delle liriche a venire. Accanto a questa prima affermazione di un mondo letterario di riferimento, di temi che diventeranno altrettanti topoi della produzione dei Dans, c’è la pazzesca qualità strumentale del lavoro: se già i membri permanenti della band erano musicisti di altissimo livello (soprattutto lo straordinario Denny Dias, ma anche Baxter quando impugna la sua pedal steel e il clima generale inclina verso il bluesy; per non parlare del precisissimo e versatile Hodder dietro le pelli), accanto a loro e agli altrettanti formidabili Fagen e Walter Becker (che continuo a considerare ampiamente sottovalutato come bassista) in Countdown to Ecstasy cominciano a comparire ospiti di primissimo piano, come il già citato Ray Brown (che proprio non necessita di presentazioni: considerate che io studio contrabbasso ancora oggi su un suo metodo), ma anche i jazzisti Victor Feldman (che diventerà presenza pressoché fissa nella produzione di studio di Fagen e Becker) e Ernie Watts, tanto per citarne solo due. Countdown to Ecstasy fa in qualche modo da cerniera tra ciò che gli Steely Dan erano, una touring band con una serie impressionante di hit singles nel proprio repertorio, e ciò che sarebbero diventati, ovvero l’avanguardia di un pop di qualità scintillante, pensato, scritto ed eseguito al massimo delle possibilità: forse l’autentico inizio di un percorso che avrebbe fatto la storia della musica e che, a distanza di cinquant’anni, suona ancora tremendamente coinvolgente, affascinante quanto sofisticato e allo stesso tempo assolutamente, irresistibilmente “catchy” (sì, proprio orecchiabile, per usare un termine caro alla contemporaneità: perché queste melodie ti si incollano alle orecchie e proprio non se ne vogliono andare più via), senza aver perso un briciolo della propria forza. A un certo punto gli Steely Dan dovevano sembrare una normale rock band, ma ci avrebbero messo poco a dichiarare che non c’era niente di normale nel loro universo sonoro: e forse Countdown to Ecstasy non è il disco più facile col quale introdursi al sound di Fagen e Becker, ma di sicuro rappresenta quello scarto che avrebbe spinto la traiettoria del duo verso le esotiche evoluzioni degli anni a seguire. Per usare un giro di parole, è come se questo album contenesse il sound degli Steely Dan in a nutshell: al quadro ormai mancava soltanto lo schiaccianoci.

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