Nessun uomo è un’isola: i/o (Peter Gabriel, 2023)

Sono occorsi 21 anni a Peter Gabriel per dare un seguito a Up, pubblicato nel lontanissimo 2002, e aggiungere l’ottavo capitolo (o il decimo, se volete considerare Scratch My Back e New Blood come due album a tutti gli effetti) alla sua quasi cinquantennale carriera solista, iniziata con l’abbandono dei Genesis avvenuto nel 1975 subito dopo il tour di supporto alla pubblicazione di The Lamb Lies Down On Broadway. 21 anni nei quali Gabriel non è certo stato con le mani in mano (Scratch My Back e New Blood lo testimoniano, insieme al suo lavoro nella composizione di musica per il cinema); e pur tuttavia, l’assenza dal palcoscenico internazionale con un lavoro di inediti cominciava a farsi lunga. Dopo una scrematura dei brani che (si è scoperto) andava avanti addirittura da materiale composto a metà degli anni ’90, il nucleo originale della band di Gabriel (ovvero David Rhodes, Manu Katché e Tony Levin) si è ritrovato insieme al leader ai Real World Studios per registrare alcune tracce nel 2021, e alla fine dello scorso anno l’artista inglese ha quindi annunciato la pubblicazione per il 2023 del nuovo lavoro, intitolato i/o, e soprattutto le peculiari modalità secondo le quali questa pubblicazione avrebbe avuto luogo: ciascuna delle dodici canzoni della tracklist sarebbe stata rilasciata in occasione di ogni luna piena e nuova del mese in due mix differenti, chiamati Bright Side Mix (opera di Mark Spike Stent) e Dark Side Mix (opera invece di Tchad Blake). Un terzo mix, Atmos-In-Side (curato da Hans-Martin Buff) si è aggiunto ai primi due e farà parte dell’edizione deluxe dell’album prevista per il marzo del 2024. Nel frattempo il 2023 è quasi giunto al termine e il 1 dicembre Gabriel ha dato ufficialmente alle stampe il suo ottavo (o decimo) disco solista, i/o appunto, completo di entrambi i mix: un doppio album dunque, con una durata complessiva che avvicina le due ore e trenta, qualcosa di mastodontico ed estremamente ambizioso. All’estensione senz’altro importante dell’album, infatti, va ad aggiungersi il certosino lavoro di design: i/o, al pari dei migliori lavori pubblicati da Gabriel, è un progetto incentrato sulla multimedialità, pensato per scavalcare le barriere e mettere in comunicazione forme d’espressione sempre diverse (ripensiamo soltanto al software dedicato, Xplora1: Peter Gabriel’s Secret World, che accompagnò l’uscita di Us). Ogni brano è stato stavolta associato a un artwork dedicato ed espressamente sviluppato, affidato di volta in volta ai più interessanti artisti sulla scena internazionale (da Olafur Eliasson ad Ai Weiwei, da Barthélémy Toguo a Nick Cave, solo omonimo del cantautore australiano), cui hanno fatto seguito alcune video animazioni atte a condurre lo spettatore/ascoltatore dentro il lavoro artistico; e in un certo sento anche lo stesso Atmos-In-Side Mix, che verrà rilasciato in forma di Blu-Ray disc, si muove in questa direzione, andando ad ampliare anche lo spettro dei medium tecnologici usati per esperire l’album nella sua pienezza. Accanto a questa cura maniacale del dettaglio (un marchio di fabbrica di Gabriel), i/o sviluppa con una ragguardevole profondità temi che sono caratteristici della ricerca musicale (ma anche politica) del suo autore e che, pure, sono estremamente contemporanei e stringenti: temi dell’oggi, a tutti gli effetti, dalla condivisione della conoscenza alla teoria del controllo, dalle tecnocrazie giudiziarie ai temi più intimisti, legati agli affetti, al perdono, ai rapporti interpersonali (spesso molto complicati) e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Insomma, la materia è vasta e complessa, e in mani meno sapienti avrebbe probabilmente finito per debordare: ma qui stiamo parlando di uno dei maggiori artisti della scena pop mondiale, accompagnato da una pletora di musicisti difficile da eguagliare. Ci sono i compagni di avventura di tutta una carriera, ovvero David Rhodes alle chitarre, Tony Levin al basso e Chapman Stick e Manu Katché alla batteria e percussioni, ma anche Brian Eno, Don-E ai synth su Road to Joy, Josh Shpak alla tromba, il nostro Paolo Fresu su Live and Let Live e persino un loop di Steve Gadd. Il personale tecnico impegnato nella realizzazione è sconfinato ma una lista esaustiva si può leggere qui, senza dimenticare i numerosi contributi orchestrali, arrangiati da John Metcalfe, dallo stesso Gabriel e da Ed Shearmur, e quelli del Soweto Gospel Choir (per i/o, Road to Joy e Live and Let Live) e del gigantesco coro maschile svedese degli Orphei Drängar.

Ecco, di fronte a tutta questa abbondanza quello che forse un po’ sfuggiva nella dispersione dovuta alla stringente cadenza mensile con la quale i brani venivano rilasciati in entrambe le versioni che ora costituiscono i due lati dell’album è proprio il differente colore complessivo assunto dall’opera. Il Bright Side Mix, ascoltato tutto di seguito nella sua interezza, appare oggi come un lavoro fortemente paesaggistico, per così dire: lo si potrebbe avvicinare alla pittura, come lo stesso Gabriel ha suggerito definendo il suo autore, Mark Spike Stent, “un pittore”. Si tratta di un mix estremamente rarefatto, ricchissimo di sfumature, delicato e quasi impressionista nei suoi modi. Il Dark Side Mix, opera di Tchad Blake, è invece profondamente diverso. Per usare ancora le metafore di Gabriel, il mix operato da Blake è concettualmente più prossimo alla scultura che alla pittura: è un lavoro materico, scolpito, freddo fino ad essere, a tratti, metallico, molto più rude nei suoi suoni, e molto più scavato nella sua orografia; in esso tutto è più accentuato, i bassi più bassi e le batterie più tagliate. Di fatto, i due i/o appaiono come due oggetti ben distinti, le loro differenze una ricchezza aggiunta: input/output, in/out, il lavoro assume due facce, una più intima e raccolta, l’altra più strisciante, aliena, inquietante. Difficile tuttavia stabilire una preferenza (e di certo questa non era l’intenzione di Gabriel): alla fine i due mix rappresentano due album distinti, compiuti in se stessi, o, se preferite, la stessa storia narrata da due differenti punti di vista.

L’apertura di questo racconto è affidata a Panopticom, un’affascinante tavolozza elettronica intessuta da Brian Eno, con le chitarre di Rhodes e la sezione ritmica Levin/Katché a prendersi la scena. Panopticom è una canzone di una semplicità disarmante, ma di quella semplicità levigata che richiede un immenso lavoro per essere ottenuta: eloquente, per quanto diretta; complessa, per quanto minimale. Nel complesso, il sound del brano è piuttosto oscuro, non scevro delle chitarre acide già ascoltate su Us, sensazione che emerge ancor più chiaramente nei ritornelli “svuotati” del Dark Side Mix, dove solo lo strumming della chitarra di Rhodes accompagna il cantato di Gabriel, con un effetto che mozza letteralmente il fiato. Da un punto di vista concettuale, Panopticom opera un rovesciamento del senso: prendendo le mosse dal Panopticon, il quasi omonimo carcere ideale immaginato nel 1791 dal giurista Jeremy Bentham e che sarebbe servito a oltre due secoli di filosofia e letteratura come metafora perfetta del controllo e del potere infinito (basterebbe citare i vari Foucault, Chomsky, Bauman e Orwell), Gabriel sviluppa l’idea di un’enorme banca dati accessibile a tutti che possa costituire un passaggio obbligato per de-, ri-costruire, ri-pensare il proprio ruolo e la propria posizione nel mondo e nella società (il suffisso -com, infatti, allude proprio all’idea della comunicazione). Non, dunque, uno spazio dal quale sia possibile osservare tutti gli altri senza poter essere visti, in una posizione di sfuggente superiorità, ma piuttosto uno spazio accessibile da qualunque punto e che permetta di entrare in comunicazione con chiunque: Some of what I’m writing about this time is the idea that we seem incredibly capable of destroying the planet that gave us birth and that unless we find ways to reconnect ourselves to nature and to the natural world we are going to lose a lot. A simple way of thinking about where we fit in to all of this is looking up at the sky… and the moon has always drawn me to it. La successiva The Court è ancora un brano oscuro, magmatico ed estremamente minaccioso, come ribollisse: scandita da percussioni diseguali e contrappuntata dai bassi spaziosi e profondissimi di Tony Levin, The Court è dedicata al tema della ricerca di giustizia e si ispira in parte all’attività di associazioni come NAMATI, impegnate per garantire l’accesso alla giustizia ai più deboli in tutto il mondo (altro tema al quale Gabriel è sempre stato sensibile). Particolarmente affascinante la coda conclusiva del piano, affidata a un pianoforte pulito che emerge in tutta la sua forza dalle tinte generalmente scure del brano. Playing for Time è il primo brano apertamente intimista della scaletta (Playing For Time is a song that I have been working on for a long time and have performed live, without lyrics, so some people may be familiar with it. It’s been an important song for me. It’s about time, mortality and memories and the idea that each of us has a planet full of memories which get stashed inside the brain. It is more of a personal song about how you assemble memories and whether we are prisoners of time or whether that is something that can actually free us): si tratta di una ballad distesa, nella quale la voce di Gabriel si arrampica dolcemente sul crinale costruito dalla classicità del pianoforte suonato da Tom Cawley, e che si avvale degli arrangiamenti orchestrali di Ed Shearmur. Playing for Time costituisce anche un buon esempio del ricco e ben distinto lavoro di mixing svolto da Blake e Stent sulle tracce: se nel Dark Side Mix assistiamo a una lenta e meditabonda salita che accompagna verso un finale roboante e oscuro, magmatico, nel Bright Side Mix sono piuttosto i bassi rotondi di Tony Levin a essere posti in maggiore evidenza, dando al brano il sapore di una piccola, elaborata sinfonia. Con toni che rimandano alla mente ora le migliori suite dei Genesis dell’era di Peter Gabriel e ora le ballate pianistiche di respiro classico, Playing for Time propone un pop luminoso e affascinante, di qualità cristallina, che mette ancora più in risalto la classe assoluta dei suoi interpreti. La titletrack i/o torna a essere incentrata sul tema dell’interconnessione: i/o means input / output. You see it on the back of a lot of electrical equipment and it just triggered some ideas about the stuff we put in and pull out of ourselves, in physical and non-physical ways. That was the starting point of this idea and then trying to talk about the interconnectedness of everything. Musicalmente il brano ha qualcosa della preghiera ma si risolve soprattutto in un’elegantissima ballad pop, con echi melodici che rimandano alla miglior produzione del Gabriel solista e un tono che, complessivamente, si potrebbe definire malinconico, sebbene i ritornelli alzino repentinamente il ritmo grazie soprattutto al drumming di Manu Katché. La palette scelta per Four Kind of Horses (nata da una jam session svolta da Gabriel insieme a Richard Russell, fondatore di XL Recordings, per il suo progetto Everything is Recorded; Russell presta le percussioni al brano) torna invece a virare verso toni scuri e drammatici, enfatizzati dal contributo di Eno ai synth, per poi andare a decollare nel finale col pizzicato degli archi (in particolare evidenza nel Bright Side Mix). La seguente Road to Joy impenna il ritmo della tracklist aggiungendo massicce vibrazioni funk, grazie soprattutto al superbo lavoro di Don-E al bass synth (contrappuntato da Levin al suo Chapman Stick). Anche in questo caso, i due mix lasciano emergere sensibili differenze di mood: se nel lavoro di Stent emerge soprattutto il magnifico drumming di Katché, nel mix di Blake i toni si fanno più oscuri e il groove si sposta verso un enigmatico urban funk. Questa decisa virata verso il funk non è in realtà nuova alla discografia di Gabriel, basti pensare a storici episodi come Sledgehammer, Big Time o Steam: Road to Joy si inserisce a pieno titolo in questa blasonata compagnia.

Il lato B si apre su So Much, che Gabriel in persona ha definito “a [pretty] simple song”: il brano si avvale dell’arrangiamento orchestrale di John Metcalfe e del contributo della figlia della figlia del cantante, Melanie Gabriel (backing vocals). Da un punto di vista musicale, So Much avvia la seconda metà di i/o su una ballad tesa e pensosa, con un giro armonico di quelli che non si dimenticano, gestito dal piano, riecheggiato dagli archi e accarezzato dal basso di Levin; si tratta di un’ode alla ricchezza di ispirazioni (e aspirazioni) e insieme di una delicata riflessione sulla mortalità e la finitezza (the reason I chose So Much as a title is because I’m addicted to new ideas and all sorts of projects. I get excited by things and want to jump around and do different things. I love being in a mess of so much! And yet it also means there’s just so much time, or whatever it is, available. Balancing them both is what the song is about). Olive Tree è invece un up-tempo decisamente brillante, che rimanda con la memoria a molta della produzione del primo Gabriel, quella più prossima alla new wave: anche qui Metcalfe si occupa dell’arrangiamento degli archi, mentre al trio delle meraviglie Rhodes/Levin/Katché si aggiungono Josh Shpak alla tromba e Jed Lynch alle percussioni. Se le vibrazioni più apertamente pop del brano restano ben in primo piano nel Bright Side Mix di Stent, il lavoro di missaggio di Blake lascia emergere un carattere più sognante e oscuro, conferendo al tempo stesso al brano la “durezza” e l’immediatezza di un’esecuzione live. L’immediatezza pop di Olive Tree lascia spazio al soundscape sognante e sospeso della meravigliosa Love Can Heal, guidata dalla voce immortale di Gabriel cui rispondono i cori di Melanie Gabriel, Ríoghnach Connolly, Jennie Abrahamson, Linnea Olsson e Angie Pollock. Love Can Heal è un affascinante esperimento di rock da camera, riecheggiante al tempo stesso sfumature ambient e classicheggianti (legate principalmente all’uso degli archi), ricco di un’esplosione di suoni elettronici che riempiono tutto lo spazio sonoro senza soffocarlo, ma andando a formare un delizioso tappeto sonoro per il violoncello della Olsson e soprattutto per gli intrecci vocali (anche qui l’inciso resta ben piantato nella testa). In quello che sembra essere un leitmotiv, la successiva This is Home è una love song che torna a puntare sul ritmo, costruendo un gran groove profondamente debitore dei sound Tamla-Motown e STAX tanto amati da Gabriel (che ha sempre riconosciuto Otis Redding come una delle proprie maggiori ispirazioni) e che ci presenta un Tony Levin decisamente sugli scudi. This is Home è un pop insolito che inanella nei ritornelli due momenti molto diversi tra loro (sognante il primo, scandito dal coro maschile svedese degli Orphei Drängar; più orecchiabile ed easy-listenting il secondo, affidato agli interventi degli archi). Nelle parole dello stesso Gabriel, I think it’s got a groove but unlike most pop songs that have a middle eight or bridge this has two and they are both quite different. The first one is atmospheric and dreamy and we have this amazing all male choir which comes in slowly into this dreamy, garden-like section. The choir, Orphei Drängar, are based in Sweden and I think they get a fantastic sound, it’s dark, stirring and emotional. The strings in the other middle section I really like, it’s quite catchy, poppy in a way. I think John picked up on what I was trying to go for there and did a beautiful job, as always. La ricchezza sonora del brano deflagra clamorosamente nel mix di Blake, che fa risaltare tutti i piccoli dettagli per contrasto al flusso oscuro che costituisce il nocciolo del suo missaggio: anche qui, Bright e Dark Side Mix si rivelano proprio due dischi differenti, con atmosfere e caratteri marcatamente propri e, per ragioni diverse, parimenti affascinanti. And Still, dedicata alla madre dell’artista, riporta la riflessione di Gabriel nell’alveo dell’intimismo sentimentale: When my mum died, I wanted to do something for her, but it’s taken a while before I felt comfortable and distant enough to be able to write something. Il brano, profondamente emozionale, è tagliato a metà da un meraviglioso solo di violoncello suonato da Ian Burdge della New Blood Orchestra, che nelle versioni live è eseguito dalla grandiosa Ayanna Witter-Johnson (voce ed espressività strumentale di un altro pianeta, ho avuto il piacere di ascoltarla dal vivo nella data milanese del tour mondiale di accompagnamento a i/o). Proprio questo incredibile solo di Burdge suona ancora più celestiale nel Dark Side Mix, conferendo al brano un ulteriore senso di romantica malinconia, appena smorzato dal substrato percussivo e dalla voce di Gabriel, incrinata dall’emozione. La chiusura del disco è affidata a Live and Let Live, che non sfigura nel confronto con altri storici brani conclusivi tratti dagli album precedenti dell’autore, come ad esempio la bellissima Secret World: unico tra i brani in scaletta a presentare una durata marcatamente diversa nei due mix (più breve di venticinque secondi nel Bright Side Mix rispetto alla versione Dark Side Mix), Live and Let Live chiude i/o su una nota di speranza quasi gioiosa. Da un punto di vista concettuale, si tratta di una canzone che ruota attorno ai temi del perdono, della tolleranza e dell’ottimismo (It takes courage/ To learn to forgive/ To be brave enough to listen/ To live and let live): un modo per riannodare i fili di molte delle riflessioni che attraversano l’album (e che hanno riattraversato l’intera produzione di Gabriel) e guardare al futuro con ritrovata speranza. Musicalmente, Live and Let Live condensa tutti gli elementi presenti nel disco, dall’elettronica alle orchestrazioni (affidate ancora a Metcalfe), con una coda finale melodicamente strepitosa scandita dalla batteria di Katché, dagli arpeggi di Rhodes e dai bassi di Levin. Il brano è accompagnato alla sua conclusione dal Soweto Gospel Choir, e gli echi di world music rimandano subito alla mente un capolavoro come In Your Eyes (se non sapete di cosa io stia parlando, cliccate qui, e però: male, molto male) e anche da un intervento minimale ma prezioso del nostro Paolo Fresu alla tromba (particolarmente evidente nel Dark Side Mix di Blake).

i/o contiene un multiverso musicale: c’è il rock-pop, quello suonato chitarra-basso-batteria, ma c’è anche la fascinazione per la musica sintetica ed elettronica, il sound programming e l’uso dei synth e delle drum machine per creare dei panorami sonori, dei veri e propri soundscapes; ci sono gli echi classici, il ricorso sapiente alle orchestrazioni degli archi e a quelle vocali (almeno due i cori presenti, il Soweto Gospel Choir e il coro maschile svedese degli Orphei Drängar, senza scomodare nuovamente le voci femminili con le quali Gabriel duetta nella maggior parte degli episodi), e i riferimenti alla musica del mondo, quella World Music della quale Gabriel potrà anche non essere stato l’inventore, ma della quale sicuramente è stato uno dei primi e più devoti alfieri, intendendola come superamento di barriere linguistiche e comunicative (l’uso delle amate percussioni africane, ma anche il ricorso al patchwork linguistico garantito dal Soweto Gospel Choir). Addentrandosi in queste 12 tracce, che poi in realtà sono 24, si entra dentro quasi cinquanta anni di carriera musicale, si riattraversano vecchie zone di comfort e si incontrano nuovi panorami, si sconfina in territori inattesi e si emerge con la sensazione di aver ascoltato qualcosa di completo, compiuto, pienamente realizzato. Sicuramente avrà aiutato l’aver dedicato alla gestazione di questi brani un tempo lunghissimo (almeno vent’anni), ma in un tempo così lungo è facile anche perdere l’orientamento e smarrire la necessità che tiene insieme un progetto: non è questo il caso, ovviamente, e non poteva essere altrimenti. i/o è soprattutto un album necessario perché, pur avendo avuto una gestazione tanto lunga, è un album che parla del presente e si proietta necessariamente nel futuro: parla di noi, del nostro rapporto con il nostro pianeta (Panopticom), del nostro rapporto con la tecnologia (i/o) e con gli altri esseri umani (The Court), della ricerca di senso, del superamento delle barriere comunicative (al pari di quanto accadeva lungo i solchi di Us, ad esempio), della possibilità di trovare un posto nel mondo, accanto agli altri, di realizzarsi compiutamente senza lasciarsi travolgere dall’enormità dei possibili stimoli che ci cadono continuamente addosso (So Much in fondo parla anche di questo). È soprattutto un album che ci ricorda che nessuno di noi è un’isola, tanto per indulgere nel citazionismo, che non è pensabile salvarsi da soli; che solo la consapevolezza potrà renderci esseri umani migliori (non è forse questa la sfida che ci attende in un mondo che viaggia a velocità supersoniche rispetto ai tempi che all’uomo occorrono per adeguarsi ai cambiamenti? Torno a promuovere uno dei miei articoli scientifici preferiti, quel The Tragedy of the Commons scritto da Garrett Hardin nel lontano 1968 e che pure parla del nostro presente) e ci permetterà di salvare noi stessi e questo pianeta che, fa sempre bene ricordarlo, è l’unico luogo che abbiamo. All’età d 73 anni Peter Gabriel ci ha dato una visione del mondo (e del futuro) molto più ricca e articolata di quelle che emergono da tanti altri ben più giovani artisti, e ce l’ha consegnata sotto forma di un lavoro complesso, ricco di sfaccettature, soprattutto espanso, allargato, un lavoro che vive più vite e che riesce a parlare di tanti dei temi che abbiamo brevemente elencato poc’anzi con eleganza fuori dal comune, suggerendo punti di vista sempre nuovi e stimolanti: la vitalità di quest’opera, la curiosità che sta al fondo anche solo dell’idea di proporla in ben tre mix differenti, tutto questo mi lascia pensare che Gabriel abbia ancora moltissimo da dire (e da dare). Penso onestamente che i/o sia stato il disco più importante di questo 2023, sia per la lunga attesa che lo ha preceduto, sia per il suo valore artistico una volta che abbiamo potuto scoprirlo (pazientemente, e nel corso di molti mesi, al ritmo delle lune); è insieme un trionfo dell’idea di album e un suo superamento, considerando che di fatto è un concept ma che lo abbiamo fruito in modalità dilazionata, ovvero un pezzo ogni due settimane lungo un intero anno, quindi senza poterlo consumare in un’unica soluzione come accade solitamente con gli album “classici”; è un lavoro musicalmente ineccepibile, composto da dodici brani di fattura indiscutibilmente pregevole e resi multidimensionali da un lavoro di cesello e finitura (i vari mix, il master) che ha probabilmente pochi eguali nel mondo del pop contemporaneo; ed è, soprattutto, un lavoro che parla dell’uomo, del mondo in cui vive e delle persone con le quali condivide questa esistenza. Noi, gli altri e la nostra casa: esistono temi più universali di questi? Avrei potuto anche non recensire quest’opera, perché di tutti i singoli brani ho parlato esaurientemente in tutti i round-up mensili di quest’anno: ma mi sarebbe sembrato di aver mancato uno dei momenti che hanno definito questo 2023 musicale. i/o mi spinge a non rassegnarmi a che dischi di questa importanza vedano la luce solo una volta ogni vent’anni: non resta che augurarsi che il buon Peter Gabriel non voglia farci attendere altrettanto prima di far sentire nuovamente la sua voce.

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