Io sono la rugiada, il giorno, ma tu, tu sei la pianta: i 35 anni di Spirit of Eden (Talk Talk, 1988)

Possiamo solo immaginare il gelo che deve essere calato negli uffici della EMI-Parlophone quando Mark Hollis e Tim Friese-Greene (o chi per loro) consegnarono il master del nuovo album dei Talk Talk, intitolato Spirit of Eden. I Talk Talk, ovvero Hollis, Paul Webb, Lee Harris e Friese-Greene (che ne era di fatto divenuto, negli anni, un membro aggiunto), erano stati tra gli alfieri della stagione del synth-pop e del New Romantic, e nel 1988 quella stagione ancora non si era esaurita; alfieri riottosi, a dire il vero, perché qualcosa di più profondo e sotterraneo si era sempre agitato nella band e in particolare nello spirito di Hollis, il suo autore principale, fin dai tempi dei successi commerciali degli esordi (già nei solchi di It’s My Life, album non così semplicemente “solare” e disimpegnato come a primo ascolto potrebbe apparire) e scricchiolii più consistenti erano giunti alle orecchie di chi fosse disposto ad ascoltare già un paio di anni prima, quando era stato pubblicato The Colour of Spring. Insomma, i Talk Talk erano già una band di irregolari, alla quale il grande successo commerciale dei primi lavori aveva garantito una certa libertà di manovra (creativa, quantomeno): ma niente avrebbe potuto preparare i discografici dell’etichetta a quello che finì loro davanti in quel 1988 ormai lontano trentacinque anni. La musica che emergeva dai solchi di Spirit of Eden non aveva precedenti in quel contesto (stiamo parlando pur sempre di musica pop): univa la spericolatezza e la delicatezza armonica tipiche del jazz con il gusto per le forme musicali estese e le progressioni ritmiche che potremmo trovare, ad esempio, nel progressive (anche se con intenzioni e forme finali diverse); teneva insieme gli accenti della musica sacra, la ruminazione esistenziale tipica della poesia, con l’avventurismo e lo sperimentalismo di un certo rock d’avanguardia. Oggi ci sembra difficile immaginarlo, ma all’epoca quella musica non aveva nemmeno un nome: qualche anno più tardi lo avrebbe avuto, l’avremmo chiamata per lo più post-rock e avrebbe avuto un suo riscontro sulla scena musicale. Ma in quei giorni del 1988 la musica senza nome di Spirit of Eden era soltanto quello che era: un monolite nero piombato sull’industria discografica nel bel mezzo dei days of wine and roses del successo commerciale raggiunto dalla scena synth-pop. Un monolite nero, ovvero un veicolo alieno, proveniente dal futuro e pertanto ancora irriconoscibile per gli uomini del suo tempo, semanticamente troppo altro per poter essere interpretato: un po’ come se Hollis & Co. fossero stati viaggiatori intergalattici in grado di coprire distanze fantascientifiche grazie a tecnologie mai viste prima, e avessero raggiunto infine un pianeta, il nostro, nel quale l’industria discografica ancora accendeva il fuoco sfregando legnetti. Il paragone può suonare esagerato, me ne rendo conto; ma ci sono (stati), nella storia della musica, degli album che hanno definitivamente cambiato il gioco, spostando equilibri e finendo per cambiare per sempre anche il pubblico che ne fruiva (e avrebbe continuato a fruirne e a confrontarcisi). Pensate a quello che ha significato per la scena del jazz (ma per la musica tutta) quel jazz modale sintetizzato e compresso dal sestetto di Miles Davis dentro i solchi di Kind of Blue (1959); o, per restare allo stesso anno, la rivoluzione innescata dal “nuovo jazz” suonato dal quartetto di Ornette Coleman e immortalata nel celeberrimo The Shape of Jazz to Come. Se invece non vogliamo spostarci troppo dal pop-rock come lo intendiamo oggi, possiamo pensare agli esiti e agli effetti di album come Pet Sounds dei Beach Boys (1966), o Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles (1967), con tutto ciò che il confronto a distanza tra Brian Wilson e Paul McCartney avrebbe significato (se tutto questo non vi dice niente sappiate che SMILE, il disco perduto dei Beach Boys, non avrebbe trovato pubblicazione per decenni dopo che i Beatles ebbero dato alle stampe Sgt. Pepper proprio perché Wilson sentiva di aver ormai perso quella disfida epica coi “cugini” d’oltremare), ma anche a ciò che ha detto per ormai cinquant’anni un album come The Dark Side of The Moon (1973) dei Pink Floyd in termini sia musicali che produttivi (prima che l’ego di Roger Waters decidesse di trasformare anche quel terreno in uno proprio parco giochi personale nel quale affermare una realtà parallela che, tristemente (per lui), è molto meno interessante di quella che tutti conosciamo; ma questa è un’altra storia) o, per arrivare a tempi più recenti, all’influenza enorme che ha avuto sul rock che ascoltiamo tutt’oggi un capolavoro come Ok Computer dei Radiohead (1997). Ecco, Spirit of Eden, uscito in sordina nel 1988 contro la volontà di un’etichetta discografica che non lo aveva capito, che avrebbe preteso (e ottenuto) di tagliuzzare I Believe in You per farne un singolo radiofonico e avrebbe infine fatto causa ai Talk Talk per i danni economici derivati dall’insuccesso dell’album, accolto così così da un pubblico che, provenendo da un contesto assai diverso, non era forse pronto alla musica che conteneva; ecco, dicevo, Spirit of Eden è uno di questi grandi album. Lo è stato in maniera discreta, sotterranea, sicuramente meno evidente a tutti: carsicamente, per usare una metafora che reputo abbastanza efficace. I poco più che quaranta minuti di questo album avrebbero mostrato in maniera indiscutibile per anni a venire (e lo dimostrano ancora oggi) che esiste uno spazio nel quale l’espressione musicale può essere libera, uno spazio nel quale suono e silenzio si incontrano e si parlano, un orizzonte entro il quale potersi spingere fin dove nessuno ha mai tentato.

“The Spirit of Eden was definitely the album where I thought, ‘This is it. This is what we’ve been reaching for.’ Two things came together. First, because we’d previously sold so many records, we had a very large recording budget, which we decided to use to give us freedom to experiment. And second, digital recording had just come in.” (Mark Hollis, The Sunday Times, 1998)

La storia di Spirit of Eden, in realtà, comincia con le profonde libertà creative che la band si era potuta concedere al momento di realizzare il lavoro precedente, The Colour of Spring (ne ho scritto ampiamente qui), libertà che erano soprattutto figlie del grande successo commerciale ottenuto dai primi due lavori di Hollis & Co. (The Party’s over, del 1982, e il già citato It’s My Life del 1984). The Colour of Spring, e credo che la cosa non sfuggì nemmeno ai contemporanei, non era il classico album synth-pop/new romantic, incrocio dei generi del quale il periodo storico era in piena overdose: fin dallo splendido artwork, raffigurante diverse varietà di farfalle, The Colour of Spring è un album dedicato al mutamento, al cambiamento. In esso, la crisalide si tramuta infine nella farfalla che era destinata a essere: la musica dei Talk Talk si apre e si trasforma, muta dentro qualcosa di inusitato. È vero, l’album contiene singoli di successo come Life’s What You Make It e Living in Another World (che pure non sono pop di cassetta, ma tant’è), però a essi affianca brani che indicano nuove direzioni, attraversano territori inesplorati e avviano una ricerca sottarranea destinata a sfociare nella scoperta di nuove possibilità espressive (la sensibilità dei musicisti invece, profondissima, resterà l’elemento comune a tutto il percorso): passaggi quali Happiness is Easy, Chameleon Day e soprattutto April 5th, un bozzolo di suoni avvolgenti arrangiato a creare una suite, un momento sonoro piuttosto che un brano incentrato sulla classica forma-canzone, testimoniano efficacemente il cambiamento in corso, la voglia di osare, il desiderio di dire la propria e di dirla in modo nuovo. Spirit of Eden, in questo percorso di trasformazione della band, non rappresenta quindi uno scarto improvviso: piuttosto, la capacità di condurre alle estreme conseguenze l’intenzione di cambiare, di intraprendere nuove strade. Un album che, per quanto strano potesse apparire all’epoca, nacque in realtà in continuità con il precedente e in totale consonanza con le inclinazioni autoriali e compositive di Hollis (e Friese-Greene: gli ultimi capitoli dell’avventura musicale dei Talk Talk sono fondamentalmente loro creature). I riferimenti dichiarati, come sarebbe accaduto anche per il successivo (e ultimo) album Laughing Stock (qui trovate un po’ di mie riflessioni a riguardo), la dicevano lunga: John Coltrane, gli album orchestrali di Miles Davis con Gil Evans, ma anche i Can di Tago Mago; l’idea era quella di spingere a fondo sull’interplay tra un ensemble allargato di musicisti, rompendo i confini angusti del trio, quale i Talk Talk erano sempre stati fino a quel momento (trio con l’aggiunta di Friese-Greene come strumentista multiuso), ma anche il semplice confine tra brano e brano, realizzando un lavoro che apparisse all’ascolto come un flusso sonoro unico, coeso, completo. La cifra stilistica più propria di questo lavoro la ritroviamo espressa nella celebre frase di Hollis, quella che potremmo considerare un po’ come il suo manifesto, “amo il suono, ma preferisco il silenzio”. Spirit of Eden in fondo (come sarebbe accaduto con Laughing Stock ma soprattutto, nel 1998, con l’ultima fatica discografia di Hollis, l’omonimo album solista) non fa che questo: annovera finalmente il silenzio tra gli attori principali della musica, costruendoci attorno un discorso sonoro che è incentrato, in larghissima parte, sul minimalismo (forma espressiva privilegiata per un artista come Hollis, intenzionato a distillare unicamente l’essenziale dalla propria arte), inteso però non nel senso della semplice ripetizione, e quindi di una anodina, estrema schematicità, ma come approccio all’uso della strumentazione (sottrarre piuttosto che aggiungere); ma a un ascolto approfondito l’album rivela una complessa tessitura di blues, jazz, world-music e anche prog-rock a cucire l’abito col quale l’ensemble riveste i testi di Hollis, che sono piccole divagazioni poetiche, oniriche e molto criptiche, stupendamente evocative e affascinanti ancora a distanza di tanti anni. L’essenziale, senza inutili orpelli, né più né meno di ciò che deve essere. Dentro le sei tracce nelle quali è racchiuso il flusso di Spirit of Eden non si trovano mai concessioni all’easy listening né, più in generale, a ciò che l’orecchiabilità normalmente annuncia, ovvero quella funzione “liberatoria” che è una delle principali architravi sulle quali si sostiene la musica pop: dentro questo album non ci sono sei canzoni, perché come già accennato i confini tra i brani sono sfumati, si perdono e si mescolano (e anche l’idea di affrancarsi dall’oggetto album come “raccolta di singoli”, oggi molto più diffusa, era un’idea profondamente originale per l’epoca; di morte dell’album musicale si parla, ciclicamente, più o meno da quando l’album musicale è stato concepito, ma qui il discorso è sottilmente diverso, investendo e mettendo in discussione in maniera radicale l’idea dell’album come percorso a stazioni fatto di singoli oggetti musicali fruibili indipendentemente dal contesto), ma un percorso musicale che, attraverso la rarefazione, la sottrazione piuttosto che la mera somma, è insieme un formidabile racconto spirituale e una riflessione profonda e acutissima sul “farsi” di un disco pop o, se si vuole, un meta-discorso avviato sull’idea di pop music come orizzonte precisamente (e invariabilmente) connotato.

Per poter ottenere un risultato tanto ambizioso, come già accennato, anche il concetto di band doveva essere espanso: ed è per questo che le sessioni di registrazione di Spirit of Eden, condotte nei Wessex Studios di Londra, coinvolsero oltre quindici musicisti e furono svolte con modalità atipiche (ovvero con tutte le luci rigorosamente spente, l’ambiente illuminato da lampade a olio e luci stroboscopiche, e i musicisti ad avvicendarsi davanti ai microfoni con in cuffia soltanto la base sulla quale suonare), arrivando a occupare un intero anno di lavoro. Nelle parole del tecnico del suono Phil Brown, l’album venne registrato “by chance, accident, and hours of trying every possible overdub idea”. Anche il rapporto coi vari strumentisti fu peculiare, caratterizzato dalla volontà di Hollis di ridurre al minimo le interazioni non necessarie e lasciare che fosse la musica a parlare (e che ciascuno potesse esprimersi il più liberamente possibile entro le architetture erette dal duo Hollis/Friese-Greene): come racconta sempre Brown e come si può leggere in un bell’articolo del Guardian, “twelve hours a day in the dark listening to the same six songs for eight months became pretty intense. There was very little communication with musicians who came in to play. They were led to a studio in darkness and a track would be played down the headphones”. Oltre ai componenti della line-up originale della band, ovvero Mark Hollis (voce, armonica, chitarra, organo, pianoforte, melodica e variophon), Lee Harris (batteria) e Paul Webb (basso elettrico, qui all’ultima apparizione coi compagni di avventura), con il fidato Tim Friese-Greene ad occuparsi di harmonium, piano, organo e chitarre aggiuntive, nelle sei tracce di Spirit of Eden incontriamo Martin Ditcham alle percussioni, Simon Edwards al guitarrón messicano e il jazzista Danny Thompson al contrabbasso, Robbie McIntosh al dobro e alla chitarra dodici corde, Mark Feltham all’armonica a bocca, Henry Lowther alla tromba, Nigel Kennedy al violino, il musicologo, compositore e inventore di strumenti musicali Hugh Davies coi suoi shozygs (nome generico che Davies, a lungo assistente di Karl-Heinz Stockhausen, dava a tutti quegli strumenti musicali che potevano essere alloggiati in contenitori insoliti, dando a questi ultimi un nuovo significato), e un largo ensemble di legni comprendente Andrew Stowell al fagotto, Michael Jeans all’oboe, Andrew Mariner al clarinetto e Cristopher Hooker al corno inglese, per chiudere con il coro della Chelmsford Cathedral. Un enorme messe di musicisti e di timbri musicali che farebbe immediatamente pensare, con buona ragione, a un lavoro barocco: e invece, come accennavo, Spirit of Eden è quanto di più minimale, esatto e concentrato possa capitarvi di ascoltare nell’ambito espanso della musica pop.

L’album, le cui registrazioni durarono dal maggio del 1987 al marzo del 1988, vide la luce il 12 settembre 1988, trentacinque anni fa, accompagnato da un artwork realizzato come di consueto dal fidato James March, raffigurante un albero sovraccarico di splendidi uccelli multicolore, un po’ come quelli che si potevano trovare nei giardini dell’Eden, e curiose conchiglie di mare dotate di occhi, quasi bizzarre crisalidi: insieme un richiamo alla profonda spiritualità racchiusa nei brani, uno sguardo immaginifico verso un mondo di fantasia e una metafora della ricchezza di ispirazioni e aspirazioni che questa musica voleva veicolare.

“There was real nervousness and misunderstanding about that record. Nobody got it. There wasn’t a hit single and they didn’t know how to sell it. It caused problems.” (Nigel Reeve, direttore alla EMI ai tempi della pubblicazione di Spirit of Eden)

L’album si apre sui nove minuti di The Rainbow, le prime note affidate a una tromba. Alle spalle, una tavolozza ricchissima di colori (e timbri): a tutti gli effetti, probabilmente, l’arcobaleno cui il titolo si riferisce. Uno scroscio d’acqua, elemento vitale, fa da sfondo a una bruma di legni che si solleva ad accompagnare la tromba, insieme a un bordone enorme e apparentemente infinito degli archi (e specialmente del contrabbasso): il mio modesto consiglio è di ascoltare tutto bene in cuffia, così da lasciarvi meglio rapire dalla ricchezza del tessuto armonico e sonoro. Quando il pezzo comincia, dopo due minuti di beatitudine, lo fa con una chitarra bluesy che si prende tutta la scena: un giro armonico perfetto, incastonato sulla ritmica decisa affidata a un costante pedale di basso e ai tamburi di Harris. La chitarra lancia un tema esposto dall’armonica a bocca, con un suono graffiante che dà il là all’incedere del brano: alla sei corde si aggiungono gli accordi snocciolati dal piano, e il fronte sonoro è arricchito da una costellazione di piccoli altri interventi. Complessivamente The Rainbow ha un suono enorme eppure, insieme, asciugato: lo si avverte benissimo nei ritornelli, dove i bordoni del contrabbasso lanciano brividi profondissimi lungo la schiena, e il piano rimane solo a scandire il suono del silenzio. Fin da questi primi minuti, Hollis e soci chiariscono come la calma che trasuda da queste tracce sia solo apparente, e nasconda piuttosto una forza abrasiva, bruciante, perfettamente espressa nel rumorismo portato dalle chitarre e dall’armonica, fortemente sovrasature. Con l’universo del blues The Rainbow condivide anche la tematica, che è quella del peccato e del perdono: a tratti, seguendo il breve ed enigmatico testo cantato da Hollis con voce dolente, sembra quasi di stare ascoltando una jail song (Unfound corrupt/ This song the jailor sings/ My time has run). È un formidabile e lancinante solo di armonica a tagliare in due il brano, prima che Hollis possa accompagnarlo alla sua conclusione, affidata al piano, cantando il verso Sound the victim’s song. The Rainbow si spenge di nuovo su una sinfonia di piccoli suoni, chitarre elettriche distorte che stridono all’orizzonte, la tromba che tenta di disegnare note, prima che un vibrato degli archi introduca alla cavalcata di Eden. È ancora una chitarra abrasiva a spezzare il crescendo di piano e batteria: la voce di Hollis declama un testo sulla salvezza e il sacrificio. In un avvolgente e potentissimo refrain di organo, che scompagina completamente il fronte sonoro, Hollis canta quello che forse assomiglia a un ritornello, affidato al crescendo emotivo degli splendidi versi Everybody needs someone to live by/ Everybody will need someone/ Everybody will need someone to live by/ Rage on omnipotent. Ma l’accumulo di tensione del brano non prevede una soluzione catartica, e così ogni sezione si accresce a dismisura fin quasi al punto di non ritorno per poi scivolare di nuovvo indietro alle ruminazioni cantate da Hollis: Eden si rompe come tanti fronti d’onda sulla superficie placida di un lago, colpita da un sasso. Le sezioni del ritornello, con l’ingresso prepotente dell’organo, conferiscono al brano quasi la dimensione eterea di un gospel (per una voce sola) e una tensione sonora a tratti insostenibile, ma Eden ha anche un colore jazz, testimoniato dalla sezione solista, affidata stavolta ai fiati: è come un jazz al rallentatore, però, scarnificato e dilaniato dal rumorismo delle chitarre. I lucidissimi e colorati anni ’80 del synth-pop sembrano ormai lontani anni luce, e a questo proposito sono ancora più chiari i quasi 7 minuti della successiva, splendida Desire: introdotta da un organo vibrante e profondissimo, accarezzato da una serie di suoni che scivolano leggeri, il brano viene presto scandito da chitarre ancora acidissime, che si posizionano tra pochi grappoli di accordi del piano. Desire è un brano febbrile, una processione blues-rock oscura, adagiata su un bordone d’organo e violentata brutalmente da chitarre che definire abrasive è dir poco: alle note snocciolate dal piano si mescolano, come altrettanti colpi al cuore o brividi che salgono lungo la schiena, le note nervose di un contrabbasso irresistibile, magnificamente in equilibrio tra il jazz e l’avanguardia più sperimentale. Presto il pezzo si tramuta in una specie di nerissimo sabba: le chitarre si avvolgono sul ritornello e lo sommergono letteralmente, come in una enorme detonazione, prima che il brano si svuoti di colpo restando sulla sola batteria di Harris. Quando le chitarre rientrano in gioco, l’apoteosi rumorista prende pienamente forma e si capisce che la consolazione del synth-pop è ormai definitivamente tramontata: un malessere oscuro serpeggia tra i solchi del brano, il contrabbasso scivola a scavare l’ultimo ritornello, la tensione cresce fino a essere davvero insostenibile (That ain’t me, babe/ That ain’t me, babe/ Ain’t got a bed of excuse for myself/ That ain’t me, babe/ That ain’t me, babe/ That ain’t me, babe/ just content to relax than drown within myself). D’improvviso è solo il piano, seguito da un breve silenzio pregno di significati.

“Mm, so why did you choose the Eden concept? What is the “Spirit of Eden”? What was that about?”
“Well all “Spirit of Eden” means to me, is it means two things within that same title. It means what is created and then, what has been destroyed. That’s all it means. Again it is this thing of two opposites co-existing. That’s why I like the title”.
(Intervista del 1988 di
Mark Hollis con Richard Skinner, la cui trascrizione completa si può leggere qui)

Il lato B è aperto dal charleston di Harris, prima che il suono saturo di una chitarra inizi a insinuarsi tra gli accordi del pianoforte mentre il contrabbasso disegna una sparsa figurazione ritmica: Inheritance ha l’incedere del jazz unito a una profondità melodica che commuove, e la voce bellissima di Hollis quasi arriva a mangiarsi le parole nell’impeto sentimentale di un ritornello che ritornello non è, ma squassa letteralmente i precordi (Nature’s son/ Don’t you know how life goes on/ Desperately befriending the crowd/ To incessantly drive on/ Dress in gold’s/ Surrendering gown/ Heaven bless you in your calm/ My gentle friend/ Heaven bless you). Il brano è tagliato a metà da una sezione di legni che gli conferisce un colore quasi trascendente prima che la voce torni a vibrare potente e insieme dolorosamente incrinata: tutto, in questi 5 minuti e 23 secondi (si tratta del brano più breve dell’album) è di sconquassante bellezza, dalla chitarra al calor bianco che abrade gli accordi (mamma mia, che suono pazzesco!!!) al minimalismo ritmico di un Harris dalla grazia soprannaturale, dal pianoforte che snocciola controtempi e cluster di note inusitate al contrabbasso che vibra con una profondità dell’altro mondo, oceanica. Inheritance è uno di quei brani che, da soli, valgono una discografia intera: perfetta e compiuta in se stessa, illumina di una grazia tutta particolare un flusso sonoro già portentoso. Il climax jazzy di Inheritance lascia spazio a I Believe in You, brano che Hollis dedicò al fratello tossicodipendente e che, nel titolo, suona quasi come una risposta a quella I Don’t Believe in You che campeggiava nella tracklist di The Colour of Spring. Sfortunatamente, Ed Hollis non arrivò a poter ascoltare questo brano meraviglioso, perché si spense nello stesso mese d’uscita dell’album, da tempo precipitato nella spirale della dipendenza e del disagio mentale: “I’ve seen the misery that heroin can cause. I’ve known so many people who thought the stuff would never get hold of them and end up with a totally ruined life. I’ve seen what it takes to get rid of it. I think it’s a horrible thing”, disse Mark Hollis parlando della tragedia della tossicodipendenza. I Believe in You, adagiata sulla batteria di Harris e sui bassi profondi e decisi di Webb, edifice con cura certosina un microcosmo di suoni che emanano da un nocciolo emotivo potente: Tell me how I fear it/ I buy prejudice for my health/ Is it worth so much when you taste it?/ Enough, there ain’t enough hidden hurt/ A time to sell yourself, a time for passing. Il brano, costruito sull’alternanza di strofe dirette e rabbiose e ritornelli eterei, arricchiti dagli interventi del coro della Chelmsford Cathedral, ha in sé i modi e i tempi dell’elegia: in essa, con passo aggraziato e baciato da un’eleganza fuori dal tempo, lo Spirito del titolo si rivela, e torna definitivamente a se stesso. Ma I Believe in You è soprattutto una preghiera: ogni suono nella costellazione di timbri che si odono nel corso del brano ha una necessità quasi sacrale, ed è una cascata di suoni alieni a occupare la sezione strumentale, prima che l’organo torni ad accompagnare la delicata invocazione conclusiva di Hollis, quel dolente e umano, troppo umano Spirit/ Spirit/ How long? che, con autentica forza magnetica, riesce ogni volta a toccare nel profondo, facendo vibrare corde forse dimenticate ma dannatamente importanti. La conclusione di questo viaggio sonoro è affidata all’atmosfera sospesa, cangiante di Wealth: il brano, estremamente complesso, vede la voce di Hollis adagiarsi su un organo sospeso e un contrabbasso cadenzato e affascinante, suoni entrambi profondamente spirituali, con un lieve strumming di chitarre (infine pulite) a cadenzare quelli che potrebbero essere definiti “ritornelli”. La ruminazione esistenziale del compositore inglese veleggia infine in direzione della beatitudine e della salvezza, e per molti versi Wealth è vicina (tematicamente) a Inheritance: in essa si consuma il paradosso della creazione infelice, carne e sangue si confondono a quello spirito tornato in se stesso nel brano precedente, e la canzone (anche se appare riduttivo definirla tale) si tramuta in un’invocazione di libertà e salvezza (Create upon my flesh/ Create approach upon my breath/ Bring me salvation if I fear/ Take my freedom/ Sacred love). Wealth è accompagnata verso il silenzio da un organo trascendentale, di una potenza quasi metafisica, mentre sullo sfondo si consuma un diluvio di suoni altri, mai sentiti prima: alla fine, Spirit of Eden si spenge in quel vuoto di suono che, fin dall’inizio, è stato il suo primo motore. Il brano si apriva con una sinfonia di colori e si chiude su un bordone accecante dell’organo, come un prisma al contrario, che riunisce tutti i colori nella luce bianca, riportando all’unità ciò che era disperso e separato, sintetizzando tra gli opposti, racchiudendo ogni suono dentro il più profondo, abbacinante silenzio che abbiate mai sentito.

Esiste un Altrove che non è il mondo del pop come lo conosciamo, ma una dimensione finalmente altra, differente: in questo Altrove, in uno spazio che ha saputo crearsi, esistono i sei brani di Spirit of Eden, come in un mondo separato da questo, di trascendenza e riflessione, che può essere esperito solo accettando di attraversare il deserto. E Spirit of Eden è, in un certo senso, un disco di deserti, fatto di sottrazione, negazione di una sintesi rassicurante, silenzio; ma è anche un percorso ricco di oasi lussureggianti, di sorgenti di acqua fresca, di arcobaleni dai colori così brillanti come mai se ne sono visti. Glaciale e abrasivo quanto il timbro delle chitarre elettriche che lo incidono come altrettante lame, infliggendo profondissime ferite e insieme suturandole al calor bianco (il fendente la ferita la sutura di cui scriveva, in una splendida poesia, Simone Molinaroli: la cito spesso, la trovate qui dentro); e poi abbacinante, evocativo, affascinante nei suoi bordoni affidati agli organi, negli interventi melodici dei fiati e dei legni, nella criptica poesia delle parole che lo accompagnano. Se c’è un’ispirazione religiosa in questi testi e in questi oltre quaranta minuti di musica – e Mark Hollis questo non l’ha mai negato – essa prende le mosse da un’idea della trascendenza che non è identificata, incarnata, in nessun credo particolare: è un senso religioso che nasce dalla meraviglia, dal dolore, dal comune destino dell’esperienza umana, e quindi un senso religioso che manifesta un calore e una ricchezza realmente universali, come l’antropologia di un mistero, il canto di una sorte comune a tutti gli uomini. L’esperienza di Spirit of Eden travalica i generi e incarna una volta per tutte, in maniera assolutamente calzante, l’idea di un prodotto artistico davvero “senza tempo”: supera la forma della band, espandendola (ed esplodendola) nell’idea dell’ensemble; supera la forma-canzone, riducendo i sei movimenti che lo costituiscono ad altrettanti passaggi di quello che appare come un flusso unico, denso e profondissimo; e supera, soprattutto, l’idea che lo spazio della musica debba veder limitato il proprio raggio d’azione unicamente a ciò che interessa il pubblico (o il Mercato), in una prospettiva tristemente immanente alla quale tutti siamo, purtroppo, sempre più rassegnati. Nessuno comprese questo album, alla sua uscita: né la casa discografica che, dopo aver tentato invano di trarne almeno un singolo da hit parade falcidiando I Believe in You e mettendola in rotazione sulle tv musicali associata a un video di Hollis che canta imbracciando una chitarra (e fallendo miseramente nel proposito: il singolo non avrebbe mai sfondato la top 75 in Inghilterra), avrebbe preferito far causa alla band per il danno economico subito a causa della “stranezza”, “inascoltabilità” e “inadeguatezza commerciale” dell’album; né tantomeno il pubblico, che avrebbe ascoltato assai poco Spirit of Eden (il disco avrebbe venduto infatti meno di tutti i lavori precedenti della band). Fu comunque lo stesso Hollis a dare il colpo di grazia alle poche, residue speranze di recuperare terreno dal punto di vista economico mettendo una pietra tombale sull’idea di un tour di supporto all’album (peraltro logisticamente impossibile): “There is no way that I could ever play again a lot of the stuff I played on this album because I just wouldn’t know how to. So, to play it live, to take a part that was done in spontaneity, to write it down and then get someone to play it, would lose the whole point, lose the whole purity of what it was in the first place”. D’altronde era iniziata un’altra storia, e Hollis aveva probabilmente già scelto di scomparire progressivamente nella propria musica, lasciando dietro di sé un’eredità che, tuttavia, sotterraneamente, avrebbe scavato per anni il proprio solco nel vasto panorama pop-rock: se Spirit of Eden non fu capito ai tempi della sua uscita (se non da una critica per una volta stranamente ricettiva, della quale potete leggere qui un buon campionario) è perché era avanti di anni rispetto al panorama musicale dei suoi tempi. A mettersi a elencare le band che da questo lavoro seminale hanno saputo trarre ispirazione, ciascuna declinando l’intuizione di Hollis a suo modo, si perde rapidamente il conto: Low, Radiohead, Sigur Ròs, Slint, Efterklang, tutta la scena post-rock degli anni ’90, e chi più ne ha più ne metta, ognuno di questi artisti ha palesato un debito (più o meno apertamente riconosciuto) verso il genio compositivo di Mark Hollis. Ma soprattutto, al di là di questo, è lo spirito che questo album contiene a essere prezioso: mentre scrivevo questa analisi e cercavo un modo per chiuderla, mi è tornata in mente una poesia del mio adorato Rainer Maria Rilke. La poesia descrive il momento dell’annunciazione, ma il poeta si concentra sulle mani di Maria, come esse fossero fiori, e la paragona a una pianta per il modo in cui ella, radiosa, cresce e si sviluppa. Ci sono numerosi versi di questa poesia che tornerebbero comodi per descrivere il percorso di Spirit of Eden, che in fondo non racconta che questo: la topografia del giardino dell’Eden (non a caso, una bellissima recensione che si può leggere online prende le mosse, nella sua analisi, dall’opera poetica di un altro autore, lo scozzese Edwin Muir, e in particolare da One Foot in Eden del 1959), del quale narra lo sviluppo in tutto il suo doloroso, disperato, abbacinante splendore. Parimenti al giardino del paradiso, la musica composta da Hollis è uno sviluppo rigoglioso di idee, semi che germogliano, colori inattesi: torna in soccorso l’immagine di copertina di James March, l’albero sovraccarico di uccelli coloratissimi e strani ibridi tra l’uccello e le conchiglie di mare, un trionfo poetico dell’immaginazione e della fantasia, le due doti più spiccatamente umane (tra le molte che gli uomini hanno e purtroppo, spesso, dimenticano di avere). Come l’albero immortalato sulla sua copertina, la musica di Hollis e del suo largo ensamble è complessa, richiede tutta la tua attenzione, non accetta di essere messa in secondo piano e nonostante il suo minimalismo e il frequente ricorso al pianissimo non è certamente musica “d’ambiente” nel senso più svilente del termine; al primo ascolto di questo album, del quale ricordo ancora a memoria non solo la data esatta ma pure le esatte sensazioni, anche per me fu davvero difficile orientarmi. E però la musica contenuta in Spirit of Eden, una volta che le si sia dato pazientemente il tempo di avvolgerci, è assolutamente rigogliosa, vitale, lussureggiante: certo non fu mai cosí intenso/ e vago il desiderio e nonostante tutti quanti siamo parimenti lontani dalla beatitudine (Tu non sei piú vicina a Dio/ di noi; siamo lontani/ tutti, scriveva ancora Rilke), io sono la rugiada, il giorno,/ ma tu, tu sei la pianta. Non lo so spiegare meglio, ma sento che questi versi parlano anche di questo album. Nel video che accompagnava Life’s What You Make It c’era un gran brulichio di insetti e bestiole dentro il terreno, che si alternava alle riprese dei musicisti: un mondo nel mondo che si muoveva e mutava incessantemente. Spirit of Eden è anche il suono di quel brulicare, l’eco dello spirito umano che torna a se stesso, la radiazione cosmica di fondo che ci tiene tutti legati assieme. Considero Spirit of Eden un disco autenticamente umanista, pieno di passione, di amore e dolore per il genere umano, che ci ricorda ancora una volta come, per citare le parole dell’anziano Omero de Il Cielo Sopra Berlino, “siamo tutti sulla stessa barca”.

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