My love is a weapon thrown into the oblivion of your body: Javelin (Sufjan Stevens, 2023)

This album is dedicated to the light of my life, my beloved partner and best friend Evans Richardson, who passed away in April. He was an absolute gem of a person, full of life, love, laughter, curiosity, integrity, and joy. He was one of those rare and beautiful ones you find only once in a lifetime—precious, impeccable, and absolutely exceptional in every way.
I know relationships can be very difficult sometimes, but it’s always worth it to put in the hard work and care for the ones you love, especially the beautiful ones, who are few and far between. If you happen to find that kind of love, hold it close, hold it tight, savor it, tend to it, and give it everything you’ve got, especially in times of trouble. Be kind, be strong, be patient, be forgiving, be vigorous, be wise, and be yourself. Live every day as if it is your last, with fullness and grace, with reverence and love, with gratitude and joy. This is the day the Lord has made. Let us rejoice and be glad in it.

Era Agosto quando, un po’ a sorpresa, Sufjan Stevens annunciava l’uscita di un nuovo album per l’autunno accompagnando la notizia con un primo singolo, So You are Tired. Nel mezzo sono successe molte cose, compreso l’annuncio della malattia del cantautore americano, colpito dalla sindrome di Guillain-Barré che l’ha costretto a sottoporsi, negli ultimi mesi, a un lungo percorso di riabilitazione, tutte cose che fanno apparire l’uscita di un album musicale come qualcosa di tutto sommato trascurabile, giusto un’increspatura nell’onda lunga della vita che va avanti incurante dei nostri programmi; se non fosse che quest’album, intitolato Javelin e uscito infine lo scorso 6 ottobre per la Asthmatic Kitty Records del nostro, è qualcosa più di una semplice raccolta di canzoni, e assomiglia molto a una profonda e dolorosa ruminazione di Stevens sui temi dell’amore e della morte. Come abbiamo scoperto dalle parole con le quali lo stesso autore ha licenziato la pubblicazione dell’album (e che sono riportate in esergo a questo testo), Javelin è infatti dedicato alla memoria del compagno di Sufjan Stevens, Evans Richardson, scomparso lo scorso mese di aprile. Si tratta pertanto di un disco che giunge in un momento doloroso e che racconta di un dolore altrettanto (se non più) grande, una situazione alla quale Stevens ha scelto di reagire con le armi che più gli si confanno, ovvero la musica e la poesia. Javelin giunge a tre anni dall’ultimo lavoro di studio del cantautore di Detroit, quel The Ascension che, per chi scrive, era stato uno dei migliori album dell’anno pandemico 2020, e a due dal lavoro collaborativo di Stevens con Angelo De Augustine, il bellissimo A Beginner’s Mind del 2021 (ne parlavo qui). Anche per questo nono album di studio il buon Sufjan conferma la preferenza per una metodologia di lavoro solitaria in termini di composizione e stesura dei brani, occupandosi di suonare tutti gli strumenti (oltreché di mix, produzione artistica e dell’elaborazione dell’artwork e dei testi del booklet, come vedremo a breve) e facendosi accompagnare unicamente dalla chitarra di Bryce Dessner (The National) per Shit Talk e dalle voci di Hannah Cohen, Megan Lui, Nedelle Torrisi, Adrienne Maree Brown e Pauline De Lassus a comporre gli importantissimi cori che scandiscono i vari brani della scaletta. Il mastering del lavoro è stato eseguito da Heba Kadry a New York.

My love is a weapon thrown into the oblivion of your body

La qualità letteraria dei lavori di Stevens è sempre indiscutibile, e le liriche che compongono Javelin non fanno eccezione. A questo va aggiunto come l’universo letterario dell’album non si limiti ai testi delle canzoni: il booklet dell’edizione in vinile è infatti accompagnato da una serie di brevi saggi autobiografici, composizioni di carattere quasi aforistico che mescolano insieme la vita dell’autore e riflessioni filosofiche e religiose. Stevens (come molti di noi) non è nuovo alla pratica della scrittura, e nel suo curriculum può addirittura vantare un’email di diniego alla pubblicazione di un suo racconto inviata nientepopodimeno che dalla redazione del New Yorker (le lettere di rifiuto le hanno ricevute un po’ tutti, solo che non molti di noi possono presentarne una scritta dagli editor del New Yorker). I dieci brevi testi (che potete leggere nella loro interezza qui oltreché, ovviamente, nel succitato booklet), i cui titoli letti uno di fila all’altro vanno a comporre la frase my love is a weapon thrown into the oblivion of your body, affrontano con un misto di realismo magico e feroce inventiva il tema dell’innamoramento, che di fatto costituisce l’asse portante dell’arco narrativo di Javelin: tra brevi sketch autobiografici, passaggi quasi sci-fi tra abduzioni aliene e visioni dall’utero materno, la vibrante sensualità del racconto dei primi amori e cosmiche ruminazioni sull’amore e su Dio, Stevens trasferisce e racchiude in questi dieci mini-saggi tutto il criptico fascino del suo universo lirico, prendendo anche a prestito un vecchio motto caro a Allen Ginsberg (first thought, best thought), fatto declamare da un Dio dalle sembianze femminili (cui Stevens riserva il pronome she):

[…] I shuddered and shirked at the tangible evidence of something else – the others – the imposition of a sensation outside myself, in which everything was separated into opposable armies: the land from the waters, the air from the earth, the seasons from the doldrums, the seen from the unseen, sin from sainthood, light from dark, good from evil. Everything was put in its place by the curse of namesake. The world was now before me, beneath me, above me, and ultimately against me, a pressure foot pressed down on all sides. I felt a cold claustrophobia, empty and alone, trans-natal and tragic, baffled by the violence of this new environmental context. And to think I was just a silly beansprout of a thing shivering under the medical lights, squirming like an open earthworm, now tasked with this terrible act of naming. God gave me a pen and a pad of parchment paper. “Transcribe your feelings and your findings,” she said. “Do your thing. First thought, best thought.” I did as I was commanded, a dutiful sea urchin inching its way to the possibility of words and wisdom.

Accanto al tema dell’amore (e degli amori), messo in scena attraverso una sorta di educazione sentimentale del giovane Sufjan, e a quello onnipresente della parola (the curse of namesake, ma allo stesso tempo, poco più avanti, la certezza che A world without language was once the indication of certain death), a innervare i testi di questo booklet è la presenza della morte, della cessazione di qualcosa (dalla fine di un rapporto alla vera e propria fine dell’esistenza). Non è un caso che associata al corpo (your body) vi sia l’immagine dell’oblio (oblivion), e in quest’ottica prende senso l’idea dell’amore come arma (my love is a weapon), un’arma che viene scagliata verso qualcosa (appunto, i corpi): l’amore come un giavellotto, il Javelin del titolo, che la Speranza scaglia lontano, nel paradossale tentativo di imprimere un segno in coloro che ci sono più vicini. Mi tornano in mente quattro celeberrimi versi di Osip Mandel’štam, “A Pietroburgo ci incontreremo di nuovo/ come se vi avessimo sepolto il sole,/ e una beata insensata parola/ per la prima volta pronunceremo”, come a dire che solo l’amore possa sconfiggere l’oblio, superarlo, trasfigurarlo in una “beata insensata parola”. È d’altronde lo stesso Sufjan a indicare una prospettiva di catarsi: se, nel primo di questi testi, leggiamo la frase My birth was my undoing. And then I was born into oblivion, è infatti l’amore a identificarsi con l’arma che spezza l’incantesimo, che libera lo spirito dall’oblio infinito della morte e addirittura dalla prigionia della mortalità. Nell’ultimo dei dieci episodi, che inizia con la fulminante affermazione My last love was a kind of science fiction, il risultato di un’abduzione aliena non è un trauma psicologico ma il ritorno a una pregressa condizione di esattezza, di liberazione, indefinitamente reinseriti nel magma inesauribile del nostro perenne stato di somma di infinite possibilità, accidents waiting to happen (come cantavano i Radiohead in un brano di tanti anni fa):

They removed my clothes and covered my body with a marshmallowy spray foam. They swaddled me into a warm cocoon of maroon goo, where I remained in stasis to the end of the ages, slowly resuming into the soft, pillowy features of my former self – pre-natal, premature, pre-conceived – a slippery and succulent primordial membrane of soupy warmth and illuminating agency awaiting, once again, the cosmic journey laid out before me like a yellow-brick road of possibilities – the secret oblivion of love, the “unbeknownst!” Within this pinprick vision, I saw a tapestry of afterbirth in afterglow as an addendum to an immaculate after-thought of rapturous joy. I was born-again in fullness and truth. I was a peanut. I was a pretzel. I was a pan-fried shrimp. I was pandemonium personified. I was once again myself waiting to happen again and again and again and again and again … until the end.

La vita chiude un cerchio, l’amore è l’arma che libera lo spirito, i corpi le navi misteriose a bordo delle quali attraversiamo i marosi e l’oscurità di un oceano ignoto, che è poi l’oceano del tempo, un abisso profondo come lunghe infinite notti (tanto per citare un altro campione del romanticismo più estremo e forse un po’ inatteso, in questo contesto).

I cross my arms to shield my heart

Goodbye, Evergreen
You know I love you
But everything heaven sent
Must burn out in the end
I promised you
Just as you were in my dream
Now let me off easy
And I’ll slip down through the drain
To release my scattered brain
My enemy

Something just isn’t right
I cut from the inside
I’m frightened of the end
I’m drowning in my self-defense
Now punish me
Think of me as what you will
I grow like a cancer
I’m pressed out in thе rain
Deliver me from thе poisoned pain

Una volta tratteggiato (senza pretesa di esaustività) l’universo ideale nel quale Stevens si muove per questo suo nono album di studio, non resta che capire che musica contenga davvero Javelin. Se da un punto di vista tematico, infatti, il primo e più ovvio richiamo è quello a Carrie & Lowell, album del 2015 dedicato dal cantautore alla memoria della madre Carrie e al rapporto con il di lei secondo marito Lowell Brams (che è stato figura fondamentale nella fondazione di Asthmatic Kitty Records), da un punto di vista sonoro le dieci tracce di Javelin stanno da qualche parte e in dolce equilibrio tra la levità folk degli esordi, le tentazioni orchestrali di Illinois (2005) e l’elettronica minimale che si è fatta strada dal glitch di The Age of Adz (2010) fino all’ultimo, bellissimo The Ascension. Il leitmotiv nello sviluppo di questi brani è quello di una parte introduttiva quasi sempre affidata a strumentazione acustica, seguita da uno sviluppo verso territori orchestrali o comunque arricchito dall’inserimento di sonorità elettroniche, che prendono qui caratteri meno invasivi e cosmici di quelli che spesso avevano in The Ascension (si consideri, ad esempio, proprio la tile-track di quell’album, o anche America, col suo finale kosmische musik) e più minimalisti, intimisti. Siamo pur sempre di fronte a un journal intime, un racconto che fa della delicatezza (accompagnata dalla sua seconda faccia, una calda, vitale ferocia) la chiave attraverso la quale entrare nel dolore e nell’amore più personali.

L’apertura è affidata a Goodbye Evergreen, scritta da Stevens dopo la morte del compagno. Goodbye Evergreen è probabilmente una delle cose più belle che io abbia avuto l’opportunità di ascoltare in questo 2023, un’elegia che oppone al dolore la (povera, ma umana) consolazione offerta dalla parola: se da un punto di vista musicale il brano si avvia su un piano e su una melodia vocale bellissima per venire travolto dalle saturazioni nel suo frammento centrale, sul quale un coro canta il ritornello, e spengersi poi in un finale che, dopo la contrazione dolorosa della tempesta sonora precedente, torna ad espandarlo con delicatezza accompagnandolo a spengersi sul bordone di un arco, è il testo a fare di Goodbye Evergreen un autentico capolavoro. Le due strofe che introducono il brano (e che trovate poco sopra) sono una delle vette più alte raggiunte dallo Stevens poeta, per la capacità straordinaria di tenere insieme il personale e l’universale dentro una stretta dolorosa eppure lucida, che affronta la fine, la morte e la separazione con la netta certezza che ciò che si è costruito nella vita insieme sia il collante che ci farà rincontrare, ovunque ciò sia destinato ad accadere (o non accadere, a quel punto non ha importanza che siate religiosi o meno, perché qui la religiosità non è paura ma apertura, abbandono, sguardo rivolto al futuro e non al passato). Ecco, Goodbye Evergreen declina al futuro un rapporto che si è chiuso, e che quindi il banale tempo degli uomini relegherebbe ormai al passato, alla dimensione del ricordo, concedendogli al massimo un po’ di nostalgia e di malinconia: invece quel giavellotto lanciato dalla speranza contro il corpo dell’amato è un messaggio verso il futuro, e l’intero amore che è stato altro non è che un messaggio verso il futuro, tutto quanto compresso dentro tre minuti e mezzo di delizia per le orecchie e il cuore. La seguente Running Start riprende il tema dei primi amori (quello che occupa i primi mini-saggi di accompagnamento al disco), declinandolo nella forma del più classico e delicato folk al quale Stevens ci ha abituato lungo la propria carriera: l’esperienza estatica del primo amore, dei primi baci e dei primi turbamenti che trasfigura quasi dentro un canto universale, un’esperienza panica di identificazione con la meraviglia del mondo (che c’è sempre, anche se gli uomini fanno di tutto per ucciderla, e che è racchiusa negli splendidi versi I see the light upon the lake/ The silver moon, the water snake/ A pair of eyes, a gentle breeze/ Forgotten tales, a wild beast). Se la prima reazione di fronte al contatto con l’altro è quella di volersi difendere (I cross my arms to shield my heart, canta Stevens nella prima strofa), l’amore si rivela in realtà come nient’altro che la capacità di proteggere l’altro (e infatti quel verso si trasforma in You throw your arms around my heart nella seconda strofa, quando il narratore si è ormai aperto all’altro trovando in egli un porto sicuro, consapevole che solo affrontando il rischio di lasciarsi ferire potrà vedere autenticamente compiersi la propria umanità. La seguente Will Anybody Ever Love Me? si concentra piuttosto sulla richiesta inevasa d’amore, e sul timore che essa possa allontanare l’altro piuttosto che avvicinarlo (Hello, wildness, please forgive me now/ For the heartache and the misery I create/ Take my suffering as I take my vow/ Wash me now, anoint me with that golden blade): bisogno d’amore, incomunicabilità e paura della solitudine che si intrecciano in un folk lieve, che muta forma nel suo finale dentro una progressione elettronica che appare emanazione diretta della ricerca sonora di The Ascension. Il bellissimo folk di Everything That Rises prende addirittura il titolo da una frase del gesuita francese Pierre Teilhard De Chardin, già citata anche dalla scrittrice americana Flannery O’Connor, e tiene insieme riferimenti biblici (Turn your face around like a salted sphere), il mito di Orfeo e Euridice (Turn yourself around to see what once was there) e, più in generale, il dialogo con il divino (Jesus lift me up to a higher plane/ Can you come around before I go insane? ) in un testo che affronta coraggiosamente un tema caro alla teodicea d’ogni tempo (forse addirittura l’unico), ovvero la conciliazione dell’esperienza del male (e del dolore, che esistono e sono parte della vita di noi tutti) con l’idea dell’esistenza di un bene che si incarna nella figura di dio, riassumibile nella domanda che per millenni ha impegnato filosofi e teologi di ogni angolo del globo, ovvero come possa un dio infinitamente buono permettere che esistano il male e il dolore. La breve odissea folktronica di Genuflecting Ghost torna a riflettere scopertamente sul vuoto e sul dolore in seguito alla scomparsa della persona amata: la genuflessione evocata nel titolo è sia remissione alla volontà divina che gesto di abbandono e sottomissione, che sembra tuttavia rivolto all’amato più che alla divinità, il gesto di un uomo che lascia andare ciò che è perduto senza perdere quella speranza che gli permette di declinare al futuro la propria memoria.

La bellissima My Red Little Fox, che apre la seconda metà del lavoro, ha un altro testo di profondità oceanica, incentrato stavolta su una metafora che coinvolge la Pentecoste (evocata lungo il testo nell’immagine del vento, Kiss me like the wind, e in quella delle lingue di fuoco, Kiss me with the fire of Gods) per avanzare e proporre l’identificazione tra l’amato e il divino (Kiss me like the wind/ That flows within your veins): musicalmente, My Red Little Fox è a metà strada tra una ninnananna e un delicato madrigale per voci e rintocchi cadenzati del piano, che schiude tutta la sua forza emotiva nello splendido ritonello (My love, my queen, my spoken/ Dreams come save me), consegnando ancora alla parola (my spoken dreams, un po’ come ancora Ginsberg scriveva in Wichita Vortex Sutra: & spoken lonesomeness is Prophecy) il potere di salvare. Già nel parlare di The Ascension citai il mio verso preferito di Hölderlin, Laddove aumenta il pericolo, cresce anche ciò che salva: anche nei perigli narrati da Javelin questa massima mantiene intatto il suo universale valore. La seguente So You are Tired è stato il primo singolo estratto dall’album, nel mese di agosto scorso: si tratta di una classicissima Sufjan-ballad, suonata al piano e accompagnata da un lieve strumming delle chitarre acustiche e da poche, ponderate interferenze elettroniche, a fornire uno sfondo ideale per la vocalità vulnerabile e dolorosa del suo autore. So You are Tired è, nuovamente, una riflessione sulla fine (della vita, di una storia) sotto le mentite spoglie di un folk da camera, reminiscente delle glorie del passato più o meno recente di Stevens (da Be Alone With You a Mystery of Love), di fatto una canzone su una rottura (che inizia infatti coi versi So you are tired of us/ So rest your head/ Turning back fourteen years/ Of what I did and said/ So you are breathing disaster) raccontata con la delicatezza di una ninnananna. Il movimento dei versi è duplice: centrifugo da una parte, laddove racconta di tutto ciò che allontana la coppia, e centripeto dall’altra, quando il protagonista tenta nonostante tutto di tenere stretta la mano del proprio compagno. Esemplificativa in questo senso è la progressione che individua nel narratore dapprima la figura quasi invisibile, sacrificata del rapporto (But I was a man born invisible), successivamente l’unico polo della relazione a continuare a credere nel sentimento (I was a man indivisible/ When everything else was broke) e, infine, di fronte all’inevitabilità della rottura, l’unica persona che ancora sia depositaria di sentimenti autentici (I was the man still in love with you/ When I already knew it was done). Il brano lascia la sensazione che, per quanto la distanza tra le persone possa crescere col tempo, resti sempre qualcosa di profondo e quasi insondabile da scoprire nel mistero dei nostri sentimenti più intimi e nascosti. La brevissima title-track Javelin (To Have and To Hold), tra un richiamo alle Metamorfosi di Ovidio, la fascinazione e il timore del sangue (There’d be blood in the place/ Where you stood) e un andamento complessivamente bucolico, riflette criticamente sui voti nuziali (a questi si riferisce il leitmotiv To Have and To Hold) e introduce l’idea dell’amore come arma, quel giavellotto del quale abbiamo lungamente parlato in questa analisi. Shit Talk riprende il tema della separazione che era al centro di So You are Tired, e la sensazione è ancora che Stevens tenti di affrontare il dolore della fine del rapporto col proprio compagno, senza negarsi anche al confronto più difficile, quello con le crisi che ogni coppia (ma più in generale ogni relazione) inevitabilmente conosce: il brano va a costruire una coda finale nella quale si sviluppa, in forma di catarsi per coro e suoni vagamente elettronici, il verso Hold me closely/ Hold me tightly, lest I fall/ (I will always love you) che si tramuterà poi nella conclusiva, dolorosa evocazione I will always love you (No, I don’t wanna fight at all). Shit Talk si spegne su un drone sintetico che rimanda alla memoria ancora una volta le sonorità apprezzate in The Ascension, con un coro vocale che prende una deriva eterea e quasi sacrale, un’invocazione che si fa potente espressione di un senso religioso e insieme profondamente umano. A chiudere Javelin arriva There’s a World, che è una cover del brano omonimo di Neil Young contenuto nel capolavoro Harvest (del 1972): Sufjan trasforma There’s a World in un folk delicato, un’elegia che mi ha immediatamente rimandato alla memoria quel momento, nel finale de La Stanza del Figlio di Nanni Moretti, nel quale la famiglia elabora il lutto camminando sulla spiaggia deserta, ciascun membro in una direzione differente: There’s a world you’re livin’ in/ No one else has your part/ All God’s children in the wind, e ancora We are leavin’ (We are leavin’), we are gone (We are gone)/ Come with us to all alone/ Never worry (Never worry), never moan (Never moan)/ We will leave you all alone e In the mountains (In the mountains), in the cities (In the cities)/ You can see the righteous dream/ Look around you (Look around you), has it found you? (Has it found you?)/ Is it what it really seems?

Il viaggio dentro le dieci tracce di Javelin è un percorso doloroso, di una profondità (musicale, ma non soltanto) alla quale siamo sempre meno abituati: ha un elemento diaristico, di confessione (la dimensione del journal intime), ma ha soprattutto la forza e l’ambizione di farsi carico del punto di vista inevitabilmente soggettivo del suo autore per estenderlo a canto di dimensione universale, abbracciando la vita nel suo insieme, e non soltanto una ma tutte le vite. Nella religiosità un po’ millenarista di Sufjan Stevens, che contiene sempre una fortissima inclinazione verso l’idea della necessità dell’espiazione, è tuttavia racchiuso sopraattutto un profondissimo senso dell’umano, quasi da nuovo umanesimo, la consapevolezza che niente di ciò che è umano possa (né debba) esserci indifferente, che si accompagna al coraggio e alla capacità di affrontare dell’esperienza del dolore sia gli aspetti che, ex-post, qualcuno potrebbe definire edificanti (come se il dolore potesse avere una valenza morale), sia quelli scomodi (che di solito hanno a che fare coi propri errori, le proprie debolezze e i propri cedimenti). Quello che allo sguardo, al cuore e ai versi di Sufjan Stevens non è mai mancato, però, è proprio il coraggio di andare a fondo anche quando questo significa amplificare insopportabilmente il dolore che si sta provando: succedeva nei solchi di Carrie & Lowell e succede, con un’intensità a volte insopportabile e stordente, anche in queste dieci canzoni (che definire così appare forse riduttivo, ma è vero che questo sono, alla fin fine, e non è poco). Ci sono stati ovviamente molti dischi che si sono confrontati col dolore della morte, della separazione e della finitezza: giusto qualche anno fa, per chi scrive, il meraviglioso (e dolorosissimo) A Crow Looked At Me di Mount Eerie aveva stabilito un nuovo standard nella capacità di affrontare ad occhi aperti il più straziante dei dolori, ma in fondo molte altre opere hanno negli anni affrontato tematiche similari, a volte anche con lo stesso piglio che voleva estendere il particolare all’universale (penso al capolavoro Benji del buon Mark Kozelek nelle vesti di Sun Kil Moon, ma vale ovviamente anche per il già citato Carrie & Lowell, e gli esempi sarebbero molteplici per non dire infiniti). Quello che forse distingue Javelin è però il fatto che il giavellotto, come ogni oggetto che possiamo scagliare, viaggia in avanti, verso il futuro: la sua direzione è inevitabilmente quella della freccia del tempo. Scegliendo questa immagine, Sufjan Stevens ha voluto forse ricordarci che l’Amore (anche quello che è stato) si declina in realtà al futuro, perché è tempo che strappiamo a ciò che sarà: ciò che è stato non si può più cambiare, ma ciò che sarà dipende da come vorremo che sia. Così, se affrontare la morte, la separazione e la fine di una relazione è ovviamente doloroso, portare avanti nel futuro il sentimento che ha accompagnato una storia è forse il gesto più rivoluzionario e potente che si possa compiere: e allora appare volutamente ambivalente un titolo come Goodbye Evergreen, perché allo stesso tempo permette di dire addio ma anche arrivederci a qualcosa che sarà per sempre verde, inalterabile, intangibile al tempo e alla miseria, un nocciolo di amore alla temperatura del Sole, capace di scaldare ancora quando fuori tutto sarà freddo e morto. Forse è esattamente questo che intendeva Hölderlin con quei versi che, ogni volta, mi viene voglia di adoperare per parlare della musica di Stevens (e che ripeterò una volta di più): laddove aumenta il pericolo, cresce anche ciò che salva, e mi sorprende sempre quanto spesso, alla fine, io mi renda conto di come ciò che davvero salva sia proprio quella beata, insensata parola.

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