A Game of Funky Tarots: The Lucky One (Cory Wong, 2023)

Del buon Cory Wong, chitarrista virtuoso e compositore tremendamente dotato, su queste pagine si è parlato moltissimo (e assai spesso), e a buona ragione: oltre ad essere uno degli interpreti più brillanti del proprio strumento, la chitarra, Wong può essere infatti annoverato tra gli artisti più sinceramente interessanti che ci siano oggi in circolazione e, soprattutto, è un autore estremamente prolifico, coinvolto in svariati progetti musicali (Vulfpeck, The Fearless Flyers) e attivissimo nel condurre i propri, sia in termini di pubblicazioni che di spettacoli live. Non è infrequente che il nostro arrivi a pubblicare 4-5 album in un solo anno, e spesso tutti album di studio: il conteggio si era fermato addirittura a 10 uscite nel corso del solo 2020 (anche se l’isolamento sociale imposto dalla pandemia aveva fatto la sua parte, impedendo di fatto i tour: proprio in quell’anno il buon Cory era atteso anche al Pistoia Blues, ma non se ne fece niente), tra lavori solisti (quattro), collaborazioni (due) e incisioni live (altre quattro). Il 2023 di Cory Wong, in questo senso, è stato un anno nella media (specie considerando che non è ancora finito): il nostro ha fin qui fatto fermare il contatore a quattro uscite, ovvero due lavori live, The Power Station Tour West Coast (del quale abbiamo già parlato) e The Power Station Tour East Coast (del quale parleremo molto a breve), originati da quel Power Station pubblicato coi fidati Wongnotes nel 2022 (se aveste un vuoto di memoria, qui trovate tutto ciò che vi serve sapere), un album assieme alla Casa Madre Vulfpeck, Schvitz (nominalmente uscito il 30 dicembre del 2022, ma che considero di fatto un album del 2023) e più recentemente un lavoro solista, The Lucky One, anticipato negli ultimi mesi da alcuni singoli di lancio (dei quali abbiamo debitamente parlato nei nostri consueti Round Up mensili, tipo qui, qui, qui e qui) e ufficialmente pubblicato lo scorso 18 agosto. Quello che rende speciale la produzione di Wong è che, a fronte di questa grandissima prolificità, la qualità delle sue proposte musicali resta sempre altissima, assolutamente sopra la media: qualcosa di davvero non comune, e che testimonia come il compositore di Minneapolis abbia sì dalla sua una fortissima capacità di attrarre collaboratori d’eccezione (la lista è lunga, lunghissima, ma basteranno i nomi di Victor Wooten, coinvolto in una parte del Power Station Tour, o di Béla Fleck, Kimbra e Joe Satriani a chiarire di cosa stiamo parlando), che sono in grado di conferire sempre nuovi colori alla musica scritta da Wong, ma soprattutto possa contare sulle proprie evidenti capacità di scrittura, che sono il pezzo forte della casa, per così dire; Wong è in prima battuta un compositore geniale, pieno di immaginazione e inventiva, in secondo luogo un eccezionale chitarrista ritmico e infine, sullo sfondo, un solista eclettico con punte di virtuosismo. Insomma, il pacchetto completo.

Rispetto alla recente produzione di Wong, questo The Lucky One si presenta come un vero e proprio lavoro solista, e in quanto tale recupera, in un certo senso, anche l’estetica e la forma degli album solisti ai quali il chitarrista ci aveva abituato prima di iniziare a lavorare assiduamente coi Wongnotes (che comprendevano, oltre a una combo ritmica estesa e di altissima qualità, composta tra gli altri da Sonny T al basso e Petar Janjic alla batteria, anche un’intera sezione di fiati, modellata sugli Hornheads capitanati da Michael Nelson): nei dodici brani in scaletta si respira dunque un’aria più simile a quella di The Striped Album o Elevator Music for an Elevated Mood, tanto per citare due esempi. Con questi album, The Lucky One condivide in particolare la composizione variabile delle line-up che si avvicendano sui vari pezzi: Wong è in carica non solo della chitarra elettrica ma anche di basso (spessissimo), tastiere e percussioni, corroborando l’idea che ci si trovi di fronte a un lavoro “maggiormente” solista rispetto a quelli realizzati appunto coi Wongnotes, e fioccano le collaborazioni con altri artisti (qui si contano, tra gli altri, Louis Cole, gli O.A.R., Allen Stone e Ariel Posen). Gli indizi di un parziale ritorno al passato si leggono chiaramente anche nell’artwork, che raffigura una versione cartoon di Wong (come accadeva molto più spesso qualche anno fa, date un’occhiata a questo bel carosello di copertine per capire cosa io intenda) calata però in un contesto estetico che richiama le carte dei tarocchi: ogni singolo è stato peraltro accompagnato da una grafica simile. L’elaborazione grafica è opera di Sebi White, designer, illustratore e batterista da tempo collaboratore di Wong (ma anche di Theo Katzman e dei Vulfpeck). In questo orizzonte estetico, The Lucky One diviene dunque una carta dei tarocchi raffigurante appunto l’artista che qualche anno fa si definiva come The Optimist (titolo di uno dei primi album solisti, del 2018), e l’intero viaggio dentro questa tracklist appare come un tentativo di leggere le carte al futuro del funk, genere nel quale (indubitabilmente) la produzione del compositore di Minneapolis si inscrive, ma che pure l’estro e la creatività di Wong tentano da sempre di espandere, contrarre, allargare fino a fargli abbracciare universi semantici anche piuttosto distanti (non solo il jazz ma anche il rock, il country, la disco, perfino la musica da camera).

E cosa ci dicono quindi le carte di The Lucky One sul futuro del funk? Intanto, gli arcani maggiori lungo i quali si sviluppa la tracklist sono dodici: l’apertura è affidata a Look at Me, classico Wong-funk scritto dal nostro a quattro mani col songwriter Allen Stone (anche alla voce) e magnificamente suonato da una band che comprende, tra gli altri, i sodali di lunga data Cody Fry al piano e Seth Tackaberry al basso e l’ineffabile Michael Bland alla batteria. Look at Me si fregia soprattutto di un interplay strepitoso della sezione ritmica, con un Tackaberry immancabilmente in stato di grazia che partorisce una linea di basso fuori categoria, mostruosamente funk, impreziosita ulteriormente dagli interventi coloratissimi dei fiati (come sempre, arrangiati in maniera divina). L’adrenalina delle varie pause e ripartenze di Look at Me si stempera nel power-pop di Hiding on the Moon, realizzata col contributo di Marc Roberge degli O.A.R. alla voce e che suona un po’ come un ibrido tra i Beatles e la Dave Matthews Band. Qui Wong (basso e chitarra) accompagna il cantato di Roberge insieme a Bland alla batteria e Cody Fry alle tastiere: il brano è irresistibilmente melodico e ogni intervento strumentale accuratamente calibrato, ma è soprattutto il suo retrogusto nostalgico, intriso delle memorie di un tempo nel quale l’immaginazione sapeva (e poteva) essere l’antidoto a ogni paura, compresa quella di diventare grandi, a farne un episodio davvero speciale. La seguente Call me Wild torna al funk e all’R’n’B: Cory Wong suona praticamente ogni strumento, coadiuvato da Aaron Sterling a batteria e percussioni e con la cantante inglese dodie (al secolo Dorothy Miranda Clark) alla voce (e ukulele). Call me Wild è quella che di solito mi piace definire un’arancia meccanica, un meccanismo a orologeria irresistibile e perfetto, nel quale ogni ingranaggio gira per il verso giusto: il groove incalzante che ne sostiene l’incedere funk è la piattaforma ideale per la vocalità di dodie, a metà strada tra un’adorabile indolenza e la schiettezza di una splendida melodia, e il brano scivola via per chiudersi addirittura troppo presto. Anche qui si intravede la grandezza del compositore di razza: bastano poco più di tre minuti per creare un irresistibile universo di senso compiuto, ovvero (in questo caso) un gioiello R’n’B venato di funk e racchiuso dentro la durata che classicamente riconosciamo al pop radiofonico. A Call me Wild fa seguito The Grid Generation, il primo degli strumentali contenuti nell’album, realizzato col contributo di un batterista d’eccezione come Louis Cole. Qui The Lucky One vira decisamente verso il funk: il brano è un’autentica esplosione di groove, soprattutto per merito del drumming stratosferico di Cole. Ascoltate, per capire cosa intenda, quanto è compatta e serrata la batteria nelle strofe, mentre gioca a incastrarsi tra gli shout chorus dei fiati e l’inesausto motore ritmico della chitarra di Wong, e quanto invece suoni espansa, aperta ed enorme nei ritornelli: The Grid Generation suona come un autentico trattato sulla potenza multidimensionale del groove, mentre Cole “fa” (e disfa) letteralmente il pezzo a proprio piacimento, con una cassa che è a dir poco da pelle d’oca. Ma anche mettendo per un attimo da parte la perizia tecnica di questo impressionante metronomo umano, The Grid Generation resta un brano pieno di spunti di interesse tra i quali spicca in particolare il solo di Wong alla chitarra, uno degli otto nei quali si produce lungo la tracklist, e anche questa è una novità per un virtuoso solitamente molto parco di interventi solisti: la linea disegnata dal buon Cory, in un crescendo adrenalinico, ha accenti quasi à la Satriani, e si sposa perfettamente col drumming serratissimo di Cole. Su Separado, altro strumentale stavolta con accenti spagnoleggianti, si rivedono Kevin Gastonguay (piano, synth e organo) e un altro collaboratore di vecchia data come Yohannes Tona al basso: anche questo episodio è dominato dagli interventi solisti di Wong, e in particolare da un fraseggio totalmente improvvisato, coloratissimo, con accenti che vanno dal funk al jazz fino all’hard rock, magnificamente sostenuto dai fiati. C’è spazio anche per un bel solo di Tona al basso, un passaggio melodicissimo in parte doppiato proprio dalla chitarra del leader, prima che Gastonguay inizi a svarionare all’organo e il brano si avvii alla conclusione sulla scorta dei chorus dei fiati e di un lancinante e ispiratissimo (per quanto breve) solo di Jay Webb alla tromba: sette minuti, questi di Separado, di autentico splendore strumentale, di quelli che fanno bene alle orecchie e al cuore. La successiva Acceptance palesa qualche debito estetico nei confronti dell’album collaborativo realizzato da Wong insieme a Jon Batiste, quel Meditations del quale parlai a suo tempo (sì, praticamente li ho recensiti tutti: se non è amore questo…): l’atmosfera si fa piana e delicata, e sono gli archi (Avery Bright, violino e viola, e Matt Nelson, violoncello) a disegnare il tappeto sul quale la chitarra di Wong espone il tema del brano, impreziosita dagli interventi dei fiati. Anche qui l’intervento solista del chitarrista di Minneapolis prende le mosse dal jazz per proporre un gustosissimo passaggio dai sapori orientali ottenuto con un sapiente uso del pedale volume, una scelta di grandissimo gusto ed eleganza, che rende ancora più speciale il ritorno ai sedicesimi prima e la coda distorta del solo poi, come se il fraseggio sbocciasse letteralmente nel corso della sua esposizione. Tutto assolutamente magico, come magico è il finale, affidato alla linea introspettiva del pianoforte suonato da James Francies (se il nome non vi suona nuovo, avete ragione).

Ready apre la seconda metà del disco col ritorno delle voci, e stavolta quella di Ben Rector: il brano, suonato integralmente da Rector, Wong e Sterling, ha un retrogusto caraibico che scivola sotterraneo dentro i ritornelli e si sorregge interamente sullo strumming geometrico della chitarra di Wong. Ready è una love song nostalgica, inzuppata come un biscotto dentro una nota di pervasiva e dolce malinconia, ed è altrettanto gustosa: sono bellissimi gli stacchi della batteria di Sterling, così come il fraseggio assolutamente wongesque delle chitarre, e Rector non deve far altro che lasciarsi cullare e scivolare sapientemente su questo substrato con una linea melodica di un’orecchiabilità preziosa. Ain’t Life Strange è composta a sei mani da Wong con Ariel Posen e Seth Tackaberry: per chi ne fosse digiuno, Posen (qui alla chitarra slide) è coinvolto nella combo blues The Bros. Landreth, dedita alla più seminale sperimentazione nel campo blues/folk. Ain’t Life Strange è una ballad, accarezzata dalla voce di Posen (sostenuta dallo stesso Wong e da Phoebe Katis ai cori) e per il resto sorretta da un minimalissimo accompagnamento di basso (Tackaberry), batteria (Sterling) e chitarra. Posen si produce anche in un azzeccato solo alla sua chitarra slide, e il brano scivola via come una delicata illuminazione. Flamingo spezza questo momento riflessivo con un funk molto East Coast, che vede la collaborazione dei Basstracks, duo hip-hop di Manhattan, qui alle trombe: il groove che sorregge il brano è quello delle migliori produzioni di Wong, con un gusto vagamente retrò (per la precisione, un po’ anni ’80), esatto e quasi matematico (essenziale qui il contributo di un fuoriclasse come Bland alle pelli). C’è spazio per un ulteriore solo di Wong, che indulge nel palm-mute e nel wah per creare un’altra sequenza di frasi che non si dimenticano facilmente. Anonymous, composta da Wong insieme a Cody Fry (qui al Fender Rhodes) e Sam Greenfield (sassofono e flauto), è invece un funk visionario, pieno di immaginifici interventi solisti da parte dei vari musicisti coinvolti e benedetto da un altro lavoro strepitoso di Tackaberry al basso (davvero uno dei grandi interpreti dello strumento): la sequenza di passaggi solisti che accompagna il brano, accarezzati dagli interventi della sezione di fiati governata col consueto carisma da Michael Nelson, rendono Anonymous un bellissimo esempio di funk contemporaneo e orchestrale. La successiva Brooklyn Bop ha uno stuolo di autori impressionante (oltre a Wong, troviamo Sam Greenfield, Eddie Barbash, Eric Finland, Jordan Rose e Brandon Niederauer) ed è una riduzione in scala del brano già ascoltato nel live album The Power Station Tour West Coast, e immortalato anche in un bellissimo video. Rispetto a quella versione, la rilettura di Brooklyn Bop finita su disco è più breve e più “educata”, mancando sia del delirio bassistico di Sonny T, che la stravolgeva nella performance live, che dell’eterea coda strumentale per chitarra sognante, batteria minimale e tromba: in compenso c’è un altro splendido intervento solista del buon Wong, che si produce in un fraseggio adrenalinico e pieno di deliziose inflessioni bebop, l’ennesimo momento altissimo in una scaletta che di tali momenti è addirittura sovraccarica. A questa variante compressa di Brooklyn Bop segue la chiusura affidata a Ace, composta da Wong e Tackaberry con Dominic Lalli del duo hip-hop Big Gigantic: un loop alieno, modernissimo, nel quale le chitarre sezionano geometricamente gli splendidi bassi di Tackaberry e le batterie (sono almeno due, suonate sia da Wong che dallo stesso Tackaberry) scandiscono un brano che ha la visceralità del funk e il calore della musica dance, impreziosito nel finale da un solo di sassofono di Lalli che ha note delicatamente smooth jazz, un altro intervento solista di grande pregio.

Questo è il momento giusto per stilare una breve lista dei motivi per i quali dovreste mettere immediatamente in rotazione The Lucky One: 1) sicuramente, dovreste ascoltarlo se siete amanti del funk e vi interessa soprattutto intuirne le possibili direzioni nel panorama mutevole della musica contemporanea; 2) è suonato da una pletora di strumentisti eccezionali, che spesso fanno solo delle brevi comparsate (vedi James Francies su Acceptance), ma di quelle che non si dimenticano; 3) e forse il migliore tra tutti i motivi, trattasi del prodotto del genio di uno dei più Grandi in circolazione al momento (la G maiuscola è tutt’altro che casuale). Ormai ascolto Cory Wong da un po’, e ho avuto modo di rendermi conto come ogni album realizzato dal compositore di Minneapolis sia sempre caratterizzata do un’elevatissima qualità della scrittura e da un suono enorme, affascinante, pieno; ma soprattutto, e credo che questo sia più chiaro se anche voi suonate uno strumento, questi brani trasudano sempre la sensazione di gioia provata dai loro interpreti: avete letto bene, gioia. Ascoltando queste tracce si prova lo stesso piacere che devono aver provato i fantastici musicisti che le hanno suonate: in qualche maniera te ne accorgi, è palese, hai un po’ la sensazione che la band stia giocando a carte assolutamente scoperte. Fateci caso: quando l’ascolto si conclude e il nastro riparte da capo, si ha l’impressione di venir fuori da un’odissea in un universo parallelo, abitato da suoni mai sentiti e creature immaginifiche, tenute insieme da un qualche magico equilibrio che si palesa nella qualità adamantina dell’interplay tra i musicisti, immortalato nelle dodici tracce.

Sembra davvero incredibile, ma Cory Wong riesce ogni volta a spostare l’asticella un po’ più su e a prodursi in un salto ancora più incredibile, meglio riuscito, più elegante del precedente, e dal quale sprigionano sempre dettagli ai quali mai prima di allora avevi fatto caso. Delle qualità del Wong compositore credo di aver già detto tutto nelle mie numerosissime recensioni dedicate alla sua opera, e parimenti del valore del Wong chitarrista ritmico, virtuoso dell’accompagnamento (solo per uno come lui si può creare un’etichetta del genere): in The Lucky One si assiste di nuovo a tutto questo ma va in scena anche un elemento nuovo, che a dire il vero si intravedeva già nei dischi live, ma che viene per la prima volta esperito ed affrontato pienamente proprio in queste tracce, ovvero la cura per la componente relativa al fraseggio solista. Non mi si fraintenda, Wong è da sempre un grandissimo interprete dello strumento e che sia un fenomeno anche nel fraseggio non lo si scopre certo oggi: ma in queste dodici tracce il compositore di Minneapolis ha chiaramente deciso di fare sul serio in materia, approfondendo ed estendendo quanto mai prima d’ora il proprio vocabolario melodico. Va così a finire che The Lucky One sorprende e stordisce proprio per la ricchezza di ispirazione melodica che Wong riversa nella propria sei corde (per non parlare della solidità con la quale imbraccia il basso elettrico per accompagnare la maggior parte di queste tracce): coadiuvato da un gruppo di musicisti di un’altra categoria (Michael Bland, Seth Tackaberry, Kevin Gastonguay ma anche i fiati guidati da Michael Nelson, e tutti gli altri che abbiamo nominato nel testo), Wong riesce ancora una volta nell’impresa (che per lui appare sempre semplice) di stupire, licenziando un album che è tanto pop quanto funk, tanto R’n’B e groovy quanto ricco di passaggi atmosferici e meditativi, denso e coloratissimo e pieno di deliziose sorprese, l’ennesimo passo in avanti di uno dei pochissimi, là fuori, ad avere ancora una Visione, e la capacità di perseguirla plasmando la musica e cambiandone il corso. Non basta, infatti, suonare a mille all’ora: occorre saper reinventare, plasmare, manipolare i giri armonici e le scansioni ritmiche. Wong, indipendentemente dai musicisti che lo accompagnano, è soprattutto capace di riversare dentro la propria musica un senso di urgenza, di meraviglia e tutta l’assoluta serietà del gioco, quella che dovrebbe esser sempre messa nelle cose più serie che facciamo. Così The Lucky One è un disco riflessivo e solare al tempo stesso, nel quale passaggi lenti si alternano a groove sfrenati, le atmosfere si susseguono con un gran gusto musicale e, alla fine, la sensazione è quella di ascoltare qualcosa di vero, vivo, pulsante. Non è certo la prima volta che mi spingo a definire Wong un grandissimo dell’attuale scena musicale, che purtroppo dalle nostre parti è ancora poco noto: ce ne accorgeremo, suppongo, ma come sempre troppo tardi (e male, come tristemente accaduto recentemente con l’unica, ridicola recensione mai pubblicata in Italia di un disco dei Vulfpeck). La vita è troppo breve per spenderla a recriminare inutilmente: quello invece che possiamo fare, come amanti della buona musica, è semplicemente schiacciare play e goderci ancora una volta la meraviglia.

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