“It’s just tomorrow starting”: 40 anni di It’s My Life (Talk Talk, 1984)

Dopo la pubblicazione di The Party’s Over, album di debutto datato 1982 (giusto un anno e mezzo fa la band ne celebrava i primi quarant’anni con una riedizione anticipata dalla ripubblicazione del primo singolo Today), sarebbe stato onestamente difficile prevedere l’enorme successo commerciale che attendeva i Talk Talk. The Party’s Over fece registrare un accettabile risultato commerciale in patria, col singolo Today che riuscì ad entrare nella top 20 inglese mentre l’omonima Talk Talk raggiunse la prima posizione nelle classifiche sudafricane. Pur tuttavia, l’album ebbe globalmente scarso successo sia nel vecchio continente che oltreoceano. Mark Hollis, Paul Webb e Lee Harris (dopo aver perso Simon Brenner ma aver registrato l’ingresso nella band di un quarto membro-ombra che si sarebbe prestissimo ritagliato un ruolo di importanza più che fondamentale, ovvero Tim Friese-Greene) entrarono in studio per le sessions di quello che sarebbe divenuto il loro secondo lavoro, intitolato It’s My Life (ancora prodotto dalla EMI, che aveva evidentemente deciso di credere in questo progetto), nel corso del 1983, e l’album vide la luce l’anno seguente. Ho avuto molte difficoltà a reperire informazioni verificate sull’esatta data di uscita del disco, della quale evidentemente, un po’ come accaduto anche con altri album del glorioso passato, si è persa memoria: sicuramente però It’s My Life fu pubblicato nel corso del Febbraio del 1984 dapprima in Inghilterra, e poi di seguito sul mercato americano, francese e per l’intera Europa. La pubblicazione dell’album fu preceduta dal singolo omonimo (che debuttò con grandissimo successo nel mese precedente all’uscita, per la precisione il 6 gennaio; il successo fu soprattutto italiano, perché nel nostro paese la canzone raggiunse la più alta posizione nelle classifiche di vendita, ovvero il nono posto) e seguita dagli altri due singoli estratti, Such A Shame (26 marzo 1984) e Dum Dum Girl (luglio dello stesso anno). Mettiamo subito in chiaro le cose, specialmente per chi ha ben presente il prosieguo della carriera di Hollis e soci: It’s My Life è ancora soprattutto un disco pop; e però è un disco pop che contiene una serie di palesi incrinature, che nasconde una malinconia di fondo non comune alla scena synth-pop/new romantic dell’epoca (cui pure, in larga parte, ancora si ascrive) e che testimonia già, per così dire “in nuce”, uno spirito avventuroso e temerario, di ricerca sonora, un’inclinazione sperimentale che si sarebbe meglio espressa nei lavori successivi della band, a partire dallo splendido The Colour of Spring, pubblicato due anni più tardi (1986, ne parlavo qui), per compiersi poi definitivamente negli ultimi due lavori (Spirit of Eden del 1988, e Laughing Stock del 1991: cliccate qui e qui per un non troppo rapido ripasso).

La band che entrò in studio, come già accennato, era composta da Mark Hollis (voce, chitarra, principale compositore e coautore di tutte le tracce), Paul Webb (basso fretless) e Lee Harris (batteria), con gli interventi del già citato Tim Friese-Greene (compositore di due brani insieme a Hollis, ovvero i singoli Dum Dum Girl e It’s My Life, in carica di sintetizzatori, piano, programming e drum machines), di Ian Curnow alle tastiere (anche compositore, sempre in coabitazione con Hollis, del brano The Last Time), Phil Ramocon (piano), Robert McIntosh (chitarre), Morris Pert (percussioni) e Henry Lowther (alla tromba su Renée e Tomorrow Started). Curiosamente, sebbene non sia stato accreditato, nell’album ha suonato anche Phil Spalding, più noto per essere stato bassista di lungo corso nella band di Mike Oldfield: Spalding venne coinvolto da Curnow, col quale era in stretti rapporti, per prestare servizio nel brano The Last Time, per il quale la band necessitava di un suono dei bassi distinto da quello di Webb (che all’epoca suonava unicamente il basso fretless). Il racconto di quella session di registrazione, molto simile a un’odissea (anche a causa dello stato di ebbrezza del bassista, reduce da un concertone con Oldfield e del proverbiale perfezionismo dell’accoppiata Hollis/Friese-Greene), lo si può trovare sul sito web di Spalding (scomparso giusto un anno fa, il 5 febbraio del 2023, all’età di sessantacinque anni). Alla tracklist di It’s My Life appartiene anche un brano che porta la firma del fuoriuscito Brenner (assieme a quella di Hollis), ovvero Call in the Night Boy: Brenner fu peraltro membro fondatore della band insieme proprio al buon Mark, sebbene la sua permanenza nei Talk Talk si esaurì proprio al momento di avviare le registrazioni del secondo album. Come per tutti gli album della band, il delizioso artwork è opera del fidatissimo James Marsh: la copertina, un surreale panorama marino dai toni rosso-violacei del tramonto, incorpora elementi del dipinto The Boyhood of Raleigh di John Everett Millais (1870) all’interno di intarsi dalle forme animali. Proprio l’attenzione verso il mondo animale, che verrà ulteriormente palesata nelle copertine degli album seguenti e anche in alcuni videoclip (Life’s what you make it, in particolare), è il fulcro del video musicale che accompagnò il primo singolo estratto, appunto la title-track It’s My Life: un video che, primo fra i molti screzi che sarebbero venuti, fece drizzare le antenne alla EMI, preoccupata della sua scarsa “fruibilità” commerciale. Nel ben noto filmato, scene di vita del mondo animale (tratte dal documentario BBC Life on Earth: A Natural History by David Attenborough del 1979) sono contrapposte a inquadrature di uno spaesato Hollis girate dal regista Tim Pope presso lo Zoo di Londra. Il videoclip era soprattutto inteso come una divertita critica della banalità del lip-synching, nella quale Pope copriva (o metteva volontariamente fuori sincrono) le labbra di Hollis, rendendo impossibile collegare la voce al volto dell’artista (anche il video di Such A Shame, con la sua mimica esasperata, le lievi e volontarie asincronie tra audio e video e il suo uso delle riprese accelerate, sembra rifarsi un po’ allo stesso principio, sottolineando insieme tutta la peculiare fisicità di Hollis, perfetta anti-popstar). La EMI, come detto, non prese bene questa provocazione e pretese che venisse girato un secondo video, che consisteva nel video precedente proiettato su un green screen e sovrapposto a una performance live del brano da parte della band, con il testo in sovraimpressione e gli artisti obbligati al lip-synch: peccato che Hollis e soci si dedicarono con tale scarsità di passione alla cosa da dare a questo playback un aspetto finto, svogliato e a tratti grottesco e caricaturale, sortendo un effetto comico e ottenendo esattamente lo stesso risultato del clip originale di Pope. Un episodio che rivela come, in continuità con ciò che sarebbe accaduto di lì a qualche anno, le tensioni tra Hollis e la EMI in realtà non fossero mai mancate.

It’s My Life si apre su Dum Dum Girl, composta da Hollis con Friese-Greene. Il brano, dominato dal rotondissimo fretless di Paul Webb, racconta di una prostituta (appunto la dum dum girl del titolo) e sfodera un sound tipicamente New Romantic, col basso a scavare il groove e tutta una sequenza di sonorità elettroniche di contorno, senza dimenticare un bellissimo bridge strumentale sul quale la chitarra tratteggia una sorta di solo vagamente atmosferico. Quando Dum Dum Girl si spenge, è già tempo di una delle vette del lavoro, Such A Shame: introdotta da una drum machine e da suoni sinistri che ricordano i barriti di un elefante (ma prodotti dai sintetizzatori), Such A Shame si ispira direttamente al romanzo del 1971 The Dice Man, opera dello scrittore americano Luke Rhinehart (l’ultima edizione italiana, datata 2004, è stata pubblicata da Marcos y Marcos col titolo di L’uomo dei dadi), ed è di fatto una canzone sul fato. A un altro lavoro eccezionale di Webb al basso si sposa una delle linee melodiche vocali più belle intessute da Hollis (unico autore del brano), sottolineata perfettamente dallo svolazzo dei synth che accompagnano la conclusione dei ritornelli. Such A Shame è perfetta come pezzo pop, ma è bizzarramente riuscita anche come canzone da dancefloor: ha una forte vena malinconica e sentimentale, che scava sotterranea incastrandosi delicatamente al meccanismo ritmico irresistibile messo in moto dalla premiata ditta Webb-Harris, e ha il gran pregio di crescere con gli ascolti, tanto moderna da sembrare scritta ieri, come ogni buon pezzo immortale che si rispetti. La seguente, meravigliosa ballad Renée (cui anni dopo la band avrebbe forse fatto riferimento con Runeii, brano onirico che chiude Laughing Stock e fa calare il sipario sull’intera vicenda dei Talk Talk) è un episodio doloroso e crepuscolare, introdotto da percussioni elettroniche e accompagnato ancora una volta dai bassi potenti e rotondi di un Paul Webb che condensa il meglio della propria vena melodica nelle strofe: è un brano che racconta di disillusioni, del tempo che scorre inesorabile, di tutto ciò che non è andato come ci saremmo attesi (Well baby how the weeks fade/ Baby was the best part of your youth a sensation/ Yeah that’s a change/ I never thought I’d end up fooling you). Accanto alla sinuosa linea di basso disegnata da Webb, a fare la differenza nel brano sono il cantato doloroso e il piglio da crooner di Hollis, a cui va aggiunto il drammatico intervento solista della tromba di Henry Lowther, che spicca sull’affresco affascinante creato dai synth e dall’elettronica nella breve e minimalista sezione strumentale. La cosa realmente significativa di Renée tanto quanto di Such A Shame è però il loro minutaggio: lungi dal rimanere nei confini angusti di una durata “radiofonica”, questi due brani sono due pezzi pop letteralmente “espansi”, quasi due mini-suite che occupano tutto lo spazio necessario al loro pieno svolgimento; due veri e propri ambienti sonori, raffinati e avvolgenti, testimonianza di un profondo lavoro di composizione e produzione. A chiudere il lato A dell’album arriva la title-track (con Hollis e Friese-Greene in cabina di regia), e l’atmosfera cambia ancora: It’s My Life è un up-tempo irresistibile con un testo ancora venato di dolce malinconia e senso di spaesamento, che racconta di un uomo impegnato in un rapporto di coppia con una persona che, allo stesso tempo, vede altri. L’ambiguità sta nel fatto che l’uomo sembra allo stesso tempo consapevole del reale stato delle cose e insieme totalmente ignaro (Funny how I find myself in love with you/ If I could buy my reasoning, I’d pay to lose e Funny how I blind myself, I never knew/ If I was sometimes played upon, afraid to lose): It’s My Life scorre piacevolmente, scandita dal basso di Webb e dal drumming deciso di Harris, un singolo pop di perfezione quasi commovente.

La seconda metà dell’album si apre su Tomorrow Started (altra composizione di Hollis), un pezzo decisamente notturno, dall’incedere quasi marziale, fatto di vuoti (lunghe pause che separano le varie parti) e pieni (in particolare nei crescendo strumentali che portano ai ritornelli). Sono di nuovo i bassi di Webb a dominare il brano, insieme alle svisate delle chitarre elettriche che creano un’atmosfera dai toni tragici (personalmente, non so bene perché, mi sono sorpreso a ripensare a questa versione di Six Bell Chime proposta dai Crime and the City Solution di Mick Harvey ne Il Cielo Sopra Berlino, fatta anch’essa di pause e momenti di pieno, con un mood a tratti non così distante da quello di questo pezzo). Henry Lowther si produce in un acidissimo solo di tromba, uno squarcio jazz calato dentro la struttura pop-rock della canzone, e Tomorrow Started prosegue oscura e minacciosa verso il suo finale, che sfocia dentro The Last Time. Quest’ultima, composta da Hollis insieme al pianista Ian Curnow, si giova come già detto della performance di Phil Spalding al basso (sebbene non accreditato nelle note di copertina, Spalding ricorda come “Paul was exclusively a fretless bass player and they needed a fretted bass on this particular track”), ed è un brano più apertamente pop, con una struttura classica e un crescendo che la rende meno oscura di altri brani che costellano la tracklist, con una maggiore evidenza accordata alla strumentazione elettronica (ai synth è demandato anche un piccolo intervento solista che precede l’ultimo ritornello). Call in the Night Boys (Hollis/Brenner) rappresenta un po’ un ultimo tuffo della band nel sound del precedente album The Party’s Over: si tratta di un episodio fortemente ritmico e adrenalinico, anch’esso come il precedente abbastanza diverso rispetto agli altri brani del disco, che però si ammorbidisce nei ritornelli come sempre grazie alla forte nota melodica offerta dal fretless di Paul Webb. Call in the Night Boys è forse il brano maggiormente costruito sul drumming preciso e incalzante di Lee Harris, che cambia letteralmente volto al pezzo, con Webb a occuparsi di scandire i differenti passaggi e abrasive chitarre elettriche a incidere i ritornelli: quello che lascia intendere l’evoluzione alla quale la band si sta affacciando è però la scelta di inserire una sezione strumentale dominata da un passaggio solista del pianoforte estremamente dissonante, complesso e magmatico, una nota di oscurità che cala perfettamente il brano nell’atmosfera della scaletta. I suoni sono ancora molto ricercati, direi quasi educati, ma la voglia di cercare soluzioni “strane” o diverse è già tutta qui. Does Caroline Know? ha un andamento quasi funky, incernierato sull’interplay giocoso tra le percussioni e il basso fretless, con Hollis (unico compositore del brano) che canta un altro testo sull’incomprensione (So easy with a thief to blame/ For breaking every pledge I’ve made/ Does it matter if I can’t say). A chiudere il disco c’è la grintosa It’s You, batteria, basso e pianoforte che accompagnano il cantato di Hollis in un vorticoso crescendo che incorpora sapientemente sonorità elettroniche e chitarre elettriche graffianti, una specie di sintesi dei due mondi che sino a questo album si sono contesi l’attenzione compositiva della band, ovvero la romantica delicatezza del synth-pop (declinata però in maniera estremamente personale e, qua e là, apertamente “eretica”) e l’intensità del rock.

It’s My Life è il disco di una band pop, e di una band pop di un preciso periodo degli anni ’80, quello dominato dal cosiddetto New Romantic, fatto di una sapiente commistione di ingenuità melodica e tavolozze di colori fortemente influenzate dalla nascente scena elettronica (e dalla sua strumentazione, sintetizzatori su tutto). Però It’s My Life è anche il disco di un compositore tutto particolare, che aveva le idee chiarissime già nel 1984; ed è il disco nel quale Mark Hollis incontra Tim Friese-Greene, dando vita a quel duo che sarà alla base della straordinaria progressione compositiva dei Talk Talk nei sette anni a seguire. Il lavoro congiunto di Hollis e Friese-Greene accompagnerà presto la band dalle classifiche dei singoli più venduti fino alle soglie di un attonito e contemplativo Silenzio attraverso un inusitato e coraggiosissimo percorso sperimentale il cui esito definitivo sarà quello che (col senno di poi) a molti è apparso davvero quasi come un frammento di futuro caduto per caso nei tardi anni ’80 (mi riferisco qui al peso “ideale” che un album come Spirit of Eden avrebbe avuto sull’intenzione alla base di quel fenomeno musicale che una decina d’anni più tardi avrebbe preso il nome di post-rock). Insomma, entrare dentro le nove tracce di It’s My Life è come mettere un piede dentro un campo di forze, o fare un tuffo in un calderone nel quale i protagonisti di questa storia avevano appena cominciato a mescolare gli ingredienti che li avrebbero condotti dove erano destinati ad arrivare: è un disco non coeso e completo come The Colour of Spring né mistico e straniante come Spirit of Eden, ha sicuramente una prima metà molto più forte e convincente della seconda ma è insieme un disco nel quale convivono già molte delle istanze che emergeranno dai lavori seguenti (la malinconia e la sensazione di essere fuori posto come stato d’animo privilegiato, l’interesse per sonorità altre offerte spesso da strumenti non diffusi nel pop, quali la tromba, ma di casa in generi musicali un po’ diversi come il jazz, o anche la cura maniacale per gli arrangiamenti) e che non si nega al piacere della melodia. Se dovessi definirlo con una parola, direi che It’s My Life è un disco diretto, non meno elaborato di The Colour of Spring (ad esempio) ma che sceglie la strada della semplicità (apparente, ovviamente: perché di lavoro sotterraneo ce n’è a iosa in queste nove canzoni), la strada della melodia e del sostanziale rispetto dei canoni strutturali della canzone pop (quello che verrà genialmente meno negli ultimi lavori licenziati dalla band di Hollis e poi anche dall’Hollis solista con il meraviglioso album omonimo, ultimissimo capitolo di questa storia, del quale potete leggere qui). È un disco ancora molto calato nel suo tempo, per quanto il suo andamento crepuscolare e a tratti febbrile nascondesse già allora inquietudini probabilmente sconosciute a una larghissima fetta della scena synth-pop/New Romantic mainstream dell’epoca: lo stesso sound del basso fretless di Paul Webb, vero valore aggiunto di queste tracce, capace di oscillare meravigliosamente dal contributo ritmico, di supporto, a una spiccata vena melodica che trasforma ogni pezzo in una carezza, ogni ballata in un momento di trasporto lirico quasi insostenibile, è in larga parte figlio del proprio tempo, un tempo nel quale il basso fretless era il dominatore incontrastato delle sonorità pop e non solo (basti pensare al sound forgiato da giganti come Pino Palladino e Mick Karn; un artista, quest’ultimo, al quale le sonorità accarezzate da Webb sembrano spesso far riferimento, a tratti quasi il bassista inglese volesse omaggiare uno dei Maestri del basso fretless con tutto il rispetto e l’amore che un omaggio artistico del genere richiedono). Ecco, bisognerebbe ascoltare It’s My Life per quello che è: un bellissimo disco, pieno di melodie cristalline, di inquietudini romantiche, un catalogo di sfavillanti nostalgie. Come tutte le cose belle, soprattutto una promessa (di felicità): e tutte le cose che sono promesse in questo disco Mark Hollis, Paul Webb, Lee Harris e Tim Friese-Greene le hanno mantenute, solo in un modo un po’ diverso da quello che in tanti si sarebbero aspettati. Ma è proprio lì che sta il bello: l’evoluzione di una band può arrivare come una sorpresa, qualcosa che non avresti immaginato, qualcosa che però riesce a dire di più, a portare il discorso su un piano differente. In fondo non ci voleva molto per rendersi conto, già quarant’anni fa, che i Talk Talk non erano la solita pop band: It’s My Life non è la solita canzone d’amore, Such A Shame non è il solito pezzettino pop che impazza per radio, Renée non è una ballad come le altre, Tomorrow Started nasconde qualcosa di più di una bella melodia e Call in the Night Boys è troppo complicata per essere semplicemente una hit radiofonica. Riascoltato a distanza di quarant’anni, It’s My Life riesce ancora bellissimo e appassionante: molti dei suoi episodi non sembrano invecchiati di un giorno, i suoi passaggi più spigolosi sfidano l’ascoltatore oggi come allora, e alcuni momenti nei quali la tensione cala testimoniano comunque come la band fosse in un periodo di ricerca, un rito di passaggio che di lì a poco avrebbe prodotto alcuni capolavori inattaccabili. Però la cosa che penso più di tutte ogni volta che riascolto queste nove tracce è che Hollis potrebbe averle scritte l’altro ieri e funzionerebbero ancora perfettamente: queste nove canzoni non sono invecchiate, suonano ancora meravigliose e trascinanti come al tempo della loro uscita, ed è forse questa la migliore fotografia della qualità di un lavoro, il suo rivelarsi senza tempo (pur essendo, come ho cercato di far capire, strettamente legato al suo momento storico). Potete considerarlo un inizio, forse proprio l’inizio del domani (It’s just tomorrow starting), e come per ogni inizio anche It’s My Life si apre su un orizzonte di possibilità, che avrebbero trovato definitiva concretezza nei dischi successivi, a partire dal bellissimo The Colour of Spring, che sarebbe stato insieme sublimazione e superamento della formula pop. Ma questa è un’altra storia, della quale ho già parlato.

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